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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2014 alle ore 06:37.
FRANCOFORTE
«Sarebbe illegale non perseguire il nostro mandato». Le ultime parole della conferenza stampa di ieri del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, offrono il senso di quel che è successo in consiglio, e probabilmente succederà alle prossime riunioni. Un consiglio diviso, ma che presto dovrà prendere una decisione su come affrontare uno scenario di inflazione ormai attorno allo zero. E il mandato cui fa riferimento Draghi è quello, univoco, della stabilità dei prezzi, che la Bce definisce come “sotto, ma vicino al 2%”.
Non tollereremo una deviazione prolungata da questi obiettivi, ha detto Draghi. Molti osservatori esterni argomentano che la Bce questa deviazione l’ha già tollerata fin troppo a lungo.
Ora, però, ci si avvicina al finale di partita. Fra Draghi, che nel giorni scorsi aveva parlato di agire «senza indugi», ma ora ha scelto di pazientare ancora, e gli oppositori della linea di intraprendere acquisti di titoli su larga scala, il cosiddetto quantitative easing, o Qe. «Prendiamo in considerazione tutto, meno l’oro», ha detto il presidente della Bce, ma è chiaro che la vera chiave, e il vero scoglio, sono gli acquisti di titoli di debito pubblico. Un’ipotesi che il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha definito di dubbia legalità. E ieri è arrivata la risposta di Draghi. «Non perseguire il nostro mandato sarebbe illegale», ha concluso, dopo aver spiegato che un programma di Qe che includa titoli sovrani ricade all’interno del mandato, o meglio, è uno strumento che ha i requisiti per poter essere usato nel perseguimento del mandato.
Le parole del banchiere centrale italiano hanno però anche rivelato che, dietro a quel che è abitualmente e impropriamente descritto come uno scontro fra lui stesso e Weidmann, c’è una spaccatura più profonda nel consiglio. E ora persino nel comitato esecutivo, i “sei di Francoforte”, che dovrebbero rappresentare il motore delle decisioni della banca, lo zoccolo duro più compatto attorno al presidente. Questo gruppo si è diviso ieri persino su un elemento significativo, ma certo non decisivo, come la questione solo apparentemente semantica dell’espansione del bilancio della Bce: fino a novembre «nelle attese», oggi «nelle intenzioni». Espressione inserita nel comunicato, ma senza unanimità.
La divisione è un prologo a quanto potrebbe avvenire quando il consiglio si troverà davanti alla decisione ben più importante sugli acquisti di titoli di Stato. Sabine Lautenschlaeger, fino a pochi mesi fa vicepresidente della Bundesbank, e Yves Mersch, l’ex governatore del Lussemburgo, sono i due membri del comitato esecutivo in più netto dissenso. Lauteschlaeger ha qualificato la sua posizione nei giorni scorsi dicendo che «per il momento» non vede prevalere le ragioni del Qe. È anche per questo che Draghi ha preso tempo, per avere modo di costruire un consenso su una decisione sulla quale sa che non avrà mai l’unanimità (con Weidmann è probabile che si schierino alcuni governatori: i maggiori indiziati sono quelli di Olanda, Slovacchia ed Estonia), ma sulla quale non può permettersi una maggioranza risicata. Un voto come il 5 a 4 con il quale il suo collega giapponese Kuroda ha fatto passare il Qe alla Banca del Giappone è impensabile nell’Unione monetaria europea. La legalità, che per Draghi significa perseguimento del mandato di riportare l’inflazione verso il 2%, e quindi, se necessario, decretare acquisti di titoli di Stato, fa premio sulla unanimità.
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