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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 09 dicembre 2014 alle ore 07:27.

Non c’è niente di nuovo nelle parole di Renzi sullo scandalo di Roma. «Chi è colpevole paghi», diceva ieri. C’è invece qualcosa di nuovo da fare: affrontare il nodo-debito. Perché le radici della corruzione affondano nella mole accumulata negli anni sia dalla Capitale che dal Paese intero. La disciplina di bilancio non è solo una questione di regole europee ma di moralità e capacità della politica.
È difficile separare la storia dell’illegalità italiana e romana dalla storia del debito pubblico. Anzi, una cosa dipende dall’altra, non esiste corruzione se non è alimentata da sperpero di soldi pubblici. E le ultime vicende della Capitale ne sono la testimonianza. A fine 2012 il debito totale ammontava a quasi 14 miliardi (13,89): per capirci, sono quasi 5 miliardi in più di quanto costa la stabilizzazione del bonus Irpef di 80 euro e molto di più dello sconto Irap. Soldi sottratti a quel rilancio della crescita che si pretende possibile senza un rigore di bilancio, senza tagli e risparmi, ma solo nella chiave di imporre un braccio di ferro con Bruxelles. Ancora ieri l’Eurogruppo ha richiamato l’Italia al rispetto della regola del debito dandoci più tempo, fino a marzo, per un giudizio definitivo sui conti. Peserà in questo giudizio il fatto che in Italia la corruzione continua, as usual? E continua con costanti danni per l’Erario.
Il debito pubblico della Capitale finora ha avuto una declinazione tutta politica nello scaricabarile delle amministrazioni precedenti e nei conflitti all’interno degli stessi schieramenti. Si ricorda l’opera di salvataggio del Governo Berlusconi e lo scontro di Gianni Alemanno con la Lega. Poi, nel febbraio di quest’anno, c’è stato il botta e risposta tra Matteo Renzi e Ignazio Marino che per strappare soldi dal Governo minacciò: «Io domenica blocco la città». Ma se la politica va avanti a colpi di duelli, la sostanza è fatta di soldi che si scaricano sui cittadini. È stato calcolato (vedi Il Sole 24 Ore del 9-3-2012) che il debito della Capitale grava su ciascun romano per 3.239 euro e su una famiglia tipo per 12.959 euro. Una quota-parte è il prezzo delle illegalità di cui si legge oggi.
E molto di questo carico debitorio ha a che fare con le società partecipate dal Comune di Roma, da cui si arriva dritti anche lo scandalo di Mafia Capitale. Dal turismo al trasporto, dall’ambiente alle fiere sono 153 le partecipazione dirette e indirette del Comune. Un’enormità di cui si capisce la ragione nello scambio clientelare, nella corruzione e nell’illegalità. Diceva ieri Renzi ai giovani del Pd: «Dobbiamo fare pulizia al nostro interno». Ma l’interno dei partiti è fatto anche di questo intreccio tra politica e partecipate e non è un caso che nessun leader se ne sia mai occupato operativamente, tagliandole.
A occuparsene è stato l’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, che su tutto il territorio nazionale ne ha censite quasi 8mila, 3mila con meno di sei dipendenti, molte scatole vuote che alterano il funzionamento del mercato e generano - come si vede - perdite a carico della collettività. L’ex commissario aveva previsto in 3-4 anni di passare a mille partecipate con un risparmio di circa 3 miliardi ma suggeriva un intervento già nel 2015 di taglio per 500 milioni. A che punto siamo?
Operativamente al punto zero. C’è una norma nella legge di stabilità che prevede un termine entro il quale i Comuni italiani devono presentare un piano di tagli ma non si quantificano i risparmi. E c’è un’altra norma nella delega sulla Pa ferma al Senato, che avrà bisogno poi di decreti attuativi. Tempi lunghissimi se paragonati all’urgenza imposta dall’attualità. Che stonano con le intenzioni di fare pulizia, indeboliscono lo sforzo del rilancio economico e la trattativa con Bruxelles.








