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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 19:50.
L'ultima modifica è del 14 dicembre 2014 alle ore 20:00.

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Ekrem Dumanli parla con la stampa poco prima di essere arrestato (Ap)Ekrem Dumanli parla con la stampa poco prima di essere arrestato (Ap)

Una vasta retata di polizia giudiziaria in tutta la Turchia ha preso di mira oggi giornalisti e personalità critiche con il governo guidato dall'Akp, il partito filoislamico di Recep Tayyip Erdogan, al potere dal 2002.

In una giornata, sono stati emessi 32 ordini di arresto in 13 città del Paese. Gli agenti hanno perquisito anche la redazione di Istanbul del quotidiano Zaman, che in passato è stato collegato a Fethullah Gulen, il predicatore che vive in autoesilio negli Usa ed è uno dei principali avversari del presidente Erdogan dopo esserne stato il principale sostenitore nella lotta contro i militari, custodi secondo la Costituzione della laicità dello stato. Non a caso, fra i bersagli dell’operazione di polizia, c’era il direttore di Zaman, Ekrem Dumanli.

Alcuni manifestanti si sono radunati davanti alla redazione del giornale per protestare contro l'operazione di polizia..

Le condanne Usa e Ue. I raid della polizia turca e gli arresti dei giornalisti e dei rappresentanti dei media «vanno contro i valori europei e gli standard a cui la Turchia aspira di fare parte» dichiara l'Alto Rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini ed il commissario alla politica di vicinato Johannes Hahn. Da Washington una nota del Dipartimento di Stato Usa: «La libertà di stampa, processi giusti e un sistema giudiziario indipendente sono elementi chiave in ogni democrazia. Come alleati e amici della Turchia, chiediamo alle autorità turche di assicurare che le loro azioni non violino questi valori chiave e le fondamenta democratiche del Paese».

Nel 2012 il governo Erdogan sferrò una campagna di accuse ai vertici militari accusandoli di aver preparato, con una rete segreta, un colpo di stato per rovesciare il governo legittimo. La magistratura in primo grado condannò 230 militari a pene variabili dai 13 a 20 anni di reclusione, una decisione poi annullata in appello per mancanza di prove e che ha portato alla scarcerazione degli accusati, tra cui una decina di generali e del capo di stato maggiore. Intanto però i vertici delle Forze armate erano stati cambiati con personalità più vicine all'esecutivo.

Il rischio di deriva autoritaria nel paese però non ha risparmiato nemmeno le proteste di giovani contestatori di Gezi Park, un piccolo giardino pubblico non lontano da Piazza Taksim, a Istanbul, che sono state duramente represse dalla polizia. Poi è arrivato lo scontro tra la ricca e potente confraternita islamica di Fethullah Gulen ed Erdogan su un presunto scandalo di tangenti che ha costretto alle dimissioni tre ministri del governo a gennaio ed ha sfiorato la stessa famiglia dell'allora premier adesso, dal 1° luglio, presidente della Repubblica.

Erdogan non fa mistero di puntare a ottenere nelle prossime elezioni del 2015 i due terzi dei voti così da poter cambiare la Costituzione e introdurre nel Paese una Repubblica presidenziale. Intanto l'Akp ha fatto sapere che il presidente Erdogan presidierà le riunione di governo, una decisione che ha scatenato le proteste dei partiti di opposizione che ricordano come oggi il presidente sia una figura di garanzia e non debba schierarsi.

Tutti episodi che mettono in discussione la laicità del Paese (Erdogan sta sostenendo la frequenza dei giovani nelle scuole religiose e ha abolito il divieto dell'uso del velo islamico nelle Università) e la sua collocazione a fianco dell'Unione europea nella politica estera in Medio Oriente. Erdogan e il premier Davutoglu sostengono la Fratellanza islamica in Egitto contro il governo del Maresciallo Al Sisi, e mettono in primo piano la lotta ai curdi e al regime del siriano Bashar Al Assad piuttosto che al Califfato dell'Isis. Tutti elementi preoccupanti che allontanano il Paese sul Bosforo dall'adesione alla Ue, i cui negoziati, non a caso, languono.

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