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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2014 alle ore 12:17.
L'ultima modifica è del 15 dicembre 2014 alle ore 15:42.

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(Epa)(Epa)

Quanto è lontana la Jihad da Martin Place, il quartiere degli affari di Sydney dove un uomo armato ha preso degli ostaggi in un negozio di cioccolata? Non tanto quanto può sembrare. E se vogliamo l'apparizione di questo terrorista che vuole esporre la bandiera nera dell'Isis non è neppure una sorpresa così grande. Nell'agosto scorso un'ondata di indignazione popolare investì l'Australia quando fu rivelato che un jihadista fotografato mentre teneva in mano la testa mozzata di un soldato siriano era figlio di un cittadino siriano.

Qualche settimana dopo l'Australia inviava 600 soldati a combattere lo Stato Islamico e decideva anche di partecipare agli attacchi aerei contro il Califfato, perché gli australiani fanno parte da sempre del sistema di sicurezza occidentale e americano: i loro contigenti militari, in particolare i ranger, hanno combattutto tutte le guerre di queste decenni, Vietnam compreso.

L'Australia è nel mirino del jihadismo, al punto che sono state varate nuove leggi e istituite unità speciali anti-terrorismo per fermare la partenza dei combattenti diretti verso la Siria e l'Iraq. Un numero crescente di cittadini australiani, sia di origine musulmana che convertiti, sono stati reclutati nei gruppi militanti islamici: decine di loro sono morti combattendo in Siria e sono centinaia gli australiani coinvolti nel proselitismo, nel reclutamento e nella raccolta fondi per la Jihad. Qualche mese fa è stata attuata la più grande retata anti-terrorismo nella storia australiana e il primo ministro Tony Abbot ha parlato di un complotto per uccidere funzionari pubblici, scoperto intercettando le comunicazioni telefoniche con un jihadista australiano in Siria.

Non è questa neppure la prima volta che in Australia entra in azione il jihadista fai da te, il lupo solitario: qualche mese fa un giovane, conosciuto come “sospetto terrorista”, aveva accoltellato due agenti in una stazione di polizia a Melbourne. I fatti, più che le teorie, dicono che persino la lontana e remota Australia è terra di Jihad. Non può del tutto meravigliare visto il coinvolgimento militare del Paese in Medio Oriente e il gran numero di immigrati venuti dai Paesi arabi, magari figli di seconda generazione che hanno rifiutato l'integrazione e si sono scoperti un'identità islamica da muslim re-born, “musulmani rinati”. Non è certo un problema soltanto australiano ma riguarda direttamente l'Europa, come dimostra il caso inglese ma anche quello della Francia, da dove sono partiti per la Siria centinaia di combattenti di origine araba. Non è neppure casuale la reazione preoccupata agli eventi in corso a Sydney del premier britannico David Cameron, che ha mobilitato non soltanto i servizi britannici ma anche quelli di altri Paesi nella caccia al jihadista della porta accanto.

Il caso australiano somiglia a quello del Canada, altro Paese salito alla ribalta dopo l'uccisione di Michael Zehef-Bibeau, l'uomo che nell'ottobre scorso diede l'assalto al Parlamento. Cresciuto fra Ottawa e Montreal, con un lungo soggiorno in Libia, Michael Zehaf-Bibeau si era convertito all'Islam. Come l'Australia, il Canada partecipa alla missione militare anti-Califfato ed è stato costretto ad approvare nuove leggi anti-terrorismo.

Le vite di questi militanti, lontano migliaia di chilometri dal Medio Oriente, sono una sintesi di rudimentale indottrinamento in moschea o di preferenza sul web, contatti con facilitatori di gruppi radicali e azioni dirette: percorsi brevi, di individui che spesso hanno precedenti criminali minori, innescati dal disagio, dalla ricerca di un'identità, da parole d'ordine e slogan fulminanti e violenti. È una sorta di Jihad periferica ma letale.

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