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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 19 dicembre 2014 alle ore 06:57.

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LA «CONTA» IN SENATO

Per il leader Pd la prova del 9 sul dopo- Napolitano è la legge elettorale: la clausola del 2016 solo dopo il sì a tutti

i nodi, anche il premio alla lista

ROMA

«L’Italia, quando dovrà fare i conti con la sostituzione del presidente della Repubblica, non avrà alcun tipo di problema, perché credo che il Parlamento abbia imparato la lezione dell’aprile del 2013. Sono assolutamente convinto che le Camere riusciranno a fare quello che devono fare nei tempi stabiliti». Da Bruxelles, Matteo Renzi incassa il secondo forte endorsement della settimana da parte del capo dello Stato («non ci sono alternative alla missione del governo Renzi»)e sparge ottimismo, in Italia e all’estero, sull’imminente appuntamento delle Camere in seduta comune per la scelta del successore di Giorgio Napolitano.

Un ottimismo alimentato certo dal rinsaldato patto del Nazareno dopo i contatti degli ultimi giorni tra Denis Verdini e gli “ambasciatori” renziani Luca Lotti e Lorenzo Guerini: Forza Italia voterà l’Italicum in Senato e le riforme costituzionali alla Camera entro gennaio, prima di iniziare il gran ballo del Quirinale. Che a quel punto si potrà concentrare attorno a una personalità scelta sì dal Pd, ma non considerata ostile da Silvio Berlusconi. In cambio del sì all’Italicum nei tempi stabiliti Renzi ha concesso, come già scritto, la clausola di salvaguardia dell’entrata in vigore posticipata della legge elettorale. Si tratta sull’estate del 2016, più probabilmente giugno che settembre (si veda pagina 13).

Ma c’è un ma, emerso nelle ultime ore. La clausola della data, la sicurezza per gli azzurri e i partiti della maggioranza che per almeno un paio d’anni non si andrà a votare, sarà concessa da Renzi solo se avrà la prova del nove sulla tenuta del patto del Nazareno. Ossia solo dopo le votazioni direttamente in Aula di tutti i nodi controversi e ancora messi in discussione da Forza Italia, a partire dal premio alla lista e non alla coalizione e dall’abbassamento delle soglie di sbarramento al 3 per cento. Perché è chiaro che se gli azzurri volessero tenersi le mani libere su questi due punti - come si evinceva dalla dichiarazione congiunta al termine dell’ultimo incontro di novembre tra Renzi e Berlusconi a Palazzo Chigi - la maggioranza mancherebbe quasi certamente in un’Aula, quella di Palazzo Madama, in cui i voti di margine si aggirano sui 7-8 stando alle ultime fiducie. Stesso discorso vale per il fronte opposto a Forza Italia, quello della minoranza del Pd e dei centristi, sulla battaglia delle preferenze: i capilista bloccati non si toccano. Solo dopo, magari con un emendamento presentato direttamente in Aula, arriverà la clausola sulla data. «La data di entrata in vigore di una legge è la norma che chiude la legge», fa notare il capogruppo del Pd in Senato Luigi Zanda. E a questo proposito giunge paradossalmente di aiuto l’ostruzionismo in commissione messo in atto dal leghista Roberto Calderoli: per bypassare i suoi 16mila emendamenti la riforma elettorale andrà direttamente in Aula senza relatore, forse già domani. Il governo si prende dunque almeno un paio di settimane di tempo prima di mettere la firma sotto la fatale data dell’estate 2016.

Prima l’Italicum, dunque, che per il giovane premier ha lo stesso valore simbolico del Jobs act. È la prova, anche agli occhi degli osservatori internazionali, che con lui si stanno finalmente smuovendo le acque stagnanti dell’Italia («Renzi è il primo premier che non fa marcia indietro di fronte all’opposizione di quelli che non vogliono cambiare nulla», è non a caso l’esplicito endorsement giunto ieri dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker). Oltre al fatto , meno simbolico ma non per questo meno importante, di poter avere sul tavolo della politica italiana, ad uso interno e verso gli altri partiti, la pistola carica delle possibili elezioni anticipate.

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