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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2014 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 20 dicembre 2014 alle ore 09:10.

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di Sergio Fabbrini

Quello che si è appena concluso a Bruxelles è stato un Consiglio europeo deludente. Anche i tempi ristretti della discussione lasciano perplessi. Pur essendo il primo Consiglio presieduto dal nuovo presidente Donald Tusk, non si è sentito neppure l’odore di un nuovo ciclo politico e istituzionale. Il neo-presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha presentato il suo progetto di Fondo straordinario per gli investimenti, abbondando in vaghezza tecnica oltre che concettuale. Le Conclusioni confermano ciò che si sapeva.

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L’ANALISI

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E cioè che l’Eurozona dovrà approfondire il coordinamento delle politiche economiche nazionali, individuando “meccanismi concreti” su cui fare leva per avanzare in tale direzione. Ciò richiederà una riunione informale del Consiglio europeo nel prossimo febbraio. Nello stesso tempo il presidente della Commissione (insieme a quello dell’Eurosummit, dell’Eurogruppo e della Banca centrale europea) lavoreranno ad un rapporto da presentare al Consiglio europeo che si terrà nel giugno 2015. Nel frattempo, l’Unione europea continua a rimanere in stagnazione, l’Eurozona è soffocata da una morsa deflazionistica senza precedenti e in tutto il continente le spinte nazionalistiche e anti-euro crescono proporzionalmente con la crescita della disoccupazione e del disagio. E, comunque, senza la copertura del Consiglio europeo sarà molto più difficile, per Mario Draghi, avviare nei prossimi mesi una politica monetaria espansiva (”quantitative easing”).

Insomma, nonostante la crisi, i leader politici europei hanno deciso di non decidere, rimandando addirittura di sei mesi la stessa discussione sulle misure da prendere per promuovere la crescita. Qualcuno ha sostenuto che sembrano gli “sleepwalkers” (i sonnambuli) che portarono l’Europa alla rovina nel 1914. Non è un caso che il libro con quel titolo, scritto da Christopher Clark, sia divenuto quasi un best-seller. Allora, infatti, i governi europei e i rispettivi stati maggiori militari camminarono verso il baratro senza rendersene conto. Sono in molti a pensare, in particolare sull’altra sponda dell’Atlantico, che quella storia si stia ripetendo nell’Europa di oggi. L’analogia è utile, ma non precisa. Infatti, il processo di integrazione europea (che dura ormai da più di sessant’anni) ha cambiato la struttura dell’Europa. Ha creato istituzioni, pratiche, norme, interdipendenze che funzionano come una grande rete di sicurezza. Nel 1914, l’Europa era un tavolo diplomatico intorno a cui si sedevano monarchi e presidenti. Nel 2014, l’Europa è invece un regime istituzionalizzato il cui funzionamento coinvolge una pluralità sconfinata di attori, pubblici e privati, locali, nazionali e sovranazionali.

Tuttavia, se tale rete istituzionalizzata impedisce all’Europa di andare indietro, le impedisce anche di andare avanti. Più che sonnambuli, i leader europei sembrano degli amministratori di un condominio. Vivono giorno per giorno, fanno le riparazioni che non si possono non fare, ma non si preoccupano di cosa succede intorno alla casa. Non solo non hanno una visione del futuro, ma non pensano di averne bisogno. Si guardi il leader effettivo del Consiglio europeo, il cancelliere tedesco Angela Merkel. È certamente un leader preparato e serio. Ma è un leader da tempi normali. È un manager della crisi che interviene per spegnere il fuoco, ma non va mai a vedere se rimangono tizzoni accessi sotto le ceneri. È infatti significativo che, all’interno del Consiglio europeo degli ultimi cinque anni, non sia mai stata messa in discussione la struttura di governance economica ereditata dal Trattato di Maastricht del 1992. Eppure lì c’è il fuoco che si alimenta sotto le ceneri. Quella struttura ha infatti cercato di conciliare due logiche opposte: la centralizzazione della politica monetaria e la decentralizzazione della politica economica e fiscale. Anni di crisi non sono bastati per capire che una moneta comune richiede una politica comune. Si guardi cosa è successo al Consiglio europeo di ieri. Siccome gli Stati non si sono messi d’accordo su come trasferire, al Fondo straordinario di Juncker, le risorse dei fondi strutturali già presenti nel budget comunitario, la decisione è stata rinviata. Se l’Eurozona non si dota di una sua capacità fiscale, indipendente dai trasferimenti statali e dalle voci di bilancio esistenti, è difficile che possa perseguire politiche anticicliche.

Generalmente, nuove idee e nuovi leader emergono là dove le cose vanno male. La Germania e i Paesi del Nord Europa sono troppo soddisfatti della situazione che vivono per generare le une e gli altri. Forse le cose stanno cambiando altrove. Infatti, nuovi leader di governo si sono affermati in Italia, si stanno affermando in Francia. C’è ora da sperare che la loro percezione della necessità del cambiamento si trasformi in una nuova idea sul futuro dell’Ue e soprattutto dell’Eurozona

sfabbrini@luiss.it

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