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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2014 alle ore 06:38.

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Alla fine dell’anno arriva una buona notizia anche dall’insanguinata sponda sud del Mediterraneo. La Tunisia, come ha decretato recentemente l’Economist, è davvero “il Paese dell’anno”, il laboratorio politico del mondo arabo. Non soltanto ha eletto presidente in maniera libera e democatica l’anziano allievo di Habib Bourghiba, l'ex premier Beji Caid Essebsi, 88 anni, candidato dell’eterogeneo fronte laico Nidaa Tounes, che ha così bissato la vittoria ottenuta alle politiche di ottobre, ma può anche vantare il leader islamico più accorto, Rashid Ghannouchi, politico di vecchia scuola che era stato costretto all’esilio dall’ex dittatore Ben Alì.

Il miracolo tunisino è questo: si sono affermati i laici ma soprattutto l’Islam politico, che aveva vinto le prime elezioni libere del 2011, ha accettato le regole democratiche dell’alternanza e intende rispettarle, aprendo la strada anche a un possibile compromesso di governo, senza legittimare le proteste a favore del rivale di Essebi, il presidente uscente Moncef Marzouki, che con scarso realismo non ha preso subito atto di una netta sconfitta. Il 56% è andato a Essebsi contro il 44% a Marzouki, con un’affluenza del 60 per cento.

Ennhada (Rinascita), partito di ispirazione religiosa, è uscita sconfitta anche dalle presidenziali - dove non ha presentato un suo candidato - ma ha mostrato saggezza dichiarando che non bisogna sollevare dubbi sulla vittoria dei rivali. «Non dobbiamo offuscare la bella immagine della Tunisia - ha detto Ghannouchi - questa è un’affermazione per tutto il Paese e dobbiamo esserne orgogliosi».

In queste dichiarazioni c’è la sintesi della straordinaria parabola della Tunisia, dove le primavere arabe cominciarono con la protesta di Mohammed Bouazizi, il giovane ambulante che si diede fuoco il 17 dicembre 2010 nella remota Sidi Bouzid. Le parole di Ghannouchi e il trionfo dei secolaristi confermano l’eccezione tunisina, in un mondo arabo dove le rivolte sono sprofondate nel caos come nella confinante Libia e in Siria, disintegrata dalla guerra civile, o hanno trovato una via d’uscita assai poco democratica nel colpo di stato dei militari egiziani contro i Fratelli Musulmani. Una lezione che gli islamisti tunisini hanno tenuto ben presente.

Guardati con sufficienza perché non sono né ricchi né potenti, i tunisini possono gonfiare il petto: hanno iniziato loro le rivolte contro le marcescenti dittature arabe e si sono dimostrati capaci di imboccare la strada della transizione. E lo hanno fatto da soli, senza padrini. Non possedere gas e petrolio in certi casi è una fortuna: la Tunisia non è una preda ambita per gli appetiti esterni.

La Tunisia non ha neppure molti amici tra le ricche monarchie del Golfo, anzi tra loro si trova qualche avversario eccellente come l’Arabia Saudita che non ha mai tollerato Ghannouchi, un fratello musulmano poco incline alla dottrina wahabita. Anche questa è stata una fortuna: non sono arrivati troppi soldi né per gli islamisti al governo né per i movimenti radicali che pure hanno tentato di mettere a fuoco e fiamme il paese

Non possiamo dimenticare le uccisioni di Choukri Belaid e di Mohammed Brahmi, e neppure le violente dimostrazioni dei salafiti che hanno dato l’assalto non soltanto ai laici e a media indipendenti ma incendiato persino le tombe dei santi musulmani, ritenute un’espressione di idolatria e non il simbolo di un’antica devozione popolare. Una propaganda radicale che comunque continua a fare proseliti, reclutando seguaci tra le enormi sacche dei disoccupati: la Tunisia fornisce ancora il maggior numero di combattenti stranieri per l’Isis in Siria.

Ma la società tunisina ha dimostrato di avere gli anticorpi per reagire, inoculati dal padre della patria Habib Bourguiba sin dall’indipendenza nel 1956, un Ataturk del Maghreb che con il secolarismo favorì anche l’emancipazione delle donne: oggi sono un terzo dei deputati in Parlamento. La democrazia tunisina, con la sua nuova costituzione, con le sue leggi, si può misurare e toccare. Ma è ancora una creatura fragile, sia politicamente che economicamente.

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