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Questo articolo è stato pubblicato il 02 gennaio 2015 alle ore 07:34.
L'ultima modifica è del 02 gennaio 2015 alle ore 08:37.

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Mario Cuomo durante un discorso tenuto a New York il 13 aprile 1988 (AP Photo)Mario Cuomo durante un discorso tenuto a New York il 13 aprile 1988 (AP Photo)

NEW YORK - È stato per tre volte governatore dello stato di New York, nonchè padre dell'attuale governatore. È stato uno dei leader e oratori più celebrati dell'ala liberal del partito democratico, protagonista di prese di posizioni coraggiose per i diritti sociali e civili e contro la pena di morte. Più volte ha considerato anche di correre per la presidenza degli Stati Uniti, l'aereo con i motori che rullavano sulla pista di Albany pronto a partire alla volta delle elezioni primarie, dopo il suo memorabile debutto sulla scena politica nazionale con il discorso programmatico alla Convention democratica del 1984. Ed è stato, infine, uno dei più riconoscibili politici italoamericani, nato nel Queens da genitori immigrati senza nulla da Salerno.

Mario Cuomo si è spento ieri sera nella sua New York, nell'abitazione di famiglia a Manhattan, all'età di 82 anni. Una scomparsa avvenuta, in una paradossale coincidenza, soltanto poche ore dopo che il figlio Andrew aveva inaugurato ufficialmente il proprio secondo mandato alla guida dello stato. Erede di una dinastia politica che ha impresso una traccia indelebile nella città e nel Paese. «Un campione dei valori progressisti», lo ha definito nel suo ricordo il presidente Barack Obama. «L'incarnazione del sogno americano», fedele alla convinzione che «il Governo ha l'obbligo solenne di creare opportunità per tutti», hanno fatto sapere Bill e Hillary Clinton.

Mario Cuomo ha governato lo stato in anni spesso segnati da difficoltà, soprattutto economiche e fiscali, tra il 1983 e il 1994. E si è fatto strada con una forza intellettuale e un'abilità di manovra politica diventate proverbiali. La sua carriera è stata però segnata almeno altrettanto da perplessità e grandi rinunce, che gli sono valse il soprannome di “Amleto sull’Hudson”.

Per almeno due volte, nel 1987 e nel 1991, la corrente progressista del partito democratico ha sperato di convincerlo a compiere il salto decisivo verso la Casa Bianca, entrambe le volte scontrandosi con il suo no, mai davvero spiegato e da qualcuno attribuito al rischio di perdere. Nel 1993 si è fatto avanti per una nomina alla Corte Suprema, da parte dell'allora presidente democratico Bill Clinton, anche in quell'occasione tirandosi tuttavia indietro all'ultimo momento da un influente incarico nazionale che sembrava ideale per la sue ambizioni.

Il momento di maggior successo nazionale, che lo ha consacrato nel pantheon politico americano, è rimasto così il suo intervento del 1984 alla Convention di San Francisco. In piena era reaganiana raccolse la sfida dell'offensiva conservatrice, mettendo in ombra lo stesso candidato prescelto dal partito per contrastare, senza successo, il grande comunicatore repubblicano. Prendendo spunto dall'immagine dipinta da Reagan di un'America diventata una «città splendente sulla collina», gli contrappose l'immagine di un Paese invece che occultava i poveri e i diseredati. «Signor Presidente, dovrebbe sapere che questa nazione è una “storia di due città” piuttosto che una città risplendente su una collina». Quella frase resta forse oggi anche la sua miglior rivincita sui repubblicani e i conservatori di ieri e di oggi: la popolarità della metafora di dickensiana memoria è arrivata ai nostri giorni, rilanciata dall'attuale sindaco di New York, Bill de Blasio, nella sua vittoriosa campagna di un anno fa.

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