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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2015 alle ore 08:41.
L'ultima modifica è del 09 gennaio 2015 alle ore 08:42.

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(Ap)(Ap)

PARIGI - I fratelli Kouachi non erano certo degli sconosciuti, per i servizi e la polizia francesi. Tutt'altro. In particolare il più giovane dei due, il trentaduenne Chérif - che si faceva chiamare Abou Issen - una decina di anni fa era passato dalla piccola delinquenza al radicalismo islamico grazie all'indottrinamento, in una moschea dell'Est parigino, di un imam, Farid Benyettou, che aveva costituito una delle prime organizzazioni di reclutamento di giovani da inviare a combattere nelle fila di al-Qaeda in Iraq.

Proprio in seguito all'inchiesta su questa filiera, Chérif era stato arrestato nel 2005 e condannato a tre anni di carcere. Ed è in prigione, come troppo spesso avviene, che Chérif consolida il suo processo di radicalizzazione con la frequentazione di Djamel Beghal, condannato a dieci anni per la preparazione di un attentato all'ambasciata americana a Parigi.

Qualche anno dopo, Chérif viene coinvolto nell'inchiesta sul tentativo di favorire l'evasione di un terrorista in prigione per l'attentato a un treno della rete regionale a Parigi nel 1995. Viene rilasciato per mancanza di prove, ma in quell'occasione la Procura sottolinea «il suo forte legame con l'islam radicale e la condivisione delle tesi sulla legittimità della guerra santa armata».

Chérif è anche molto vicino all'autore dell'uccisione di due politici tunisini, Boubaker Al-Hakim, che secondo il ministero dell'Interno di Tunisi è «un terrorista tra i più pericolosi». Infine, i due fratelli sono da anni nella no-fly list delle autorità americane.

Ce n'è insomma abbastanza per chiedersi legittimamente come mai Chérif Kouachi non fosse sottoposto a uno stretto controllo da parte dell'intelligence e della polizia. Per domandarsi com'è possibile che abbia potuto organizzare e realizzare un attacco come quello di mercoledì scorso a Charlie Hebdo.

Il ministro dell'Interno sostiene che Kouachi fosse effettivamente sotto osservazione e che nulla lasciava immaginare una simile evoluzione. Ma si tratta di una risposta che ricorda quella fornita dopo gli omicidi di Mohamed Merah nel 2012 a Tolosa. O dopo l'attentato al museo ebraico di Bruxelles da parte di Mehdi Nemmouche.

La realtà è che il nemico terrorista è profondamente cambiato: da strutture organizzate, relativamente più semplici da capire e seguire, si è trasformato in mini cellule familiari o addirittura in lupi solitari (magari di ritorno dai campi di addestramento in Siria) che sfuggono troppo spesso al controllo dei servizi. I quali, se vogliono vincere la nuova, terribile sfida, devono rapidamente adeguarsi. Ed essere ovviamente dotati delle risorse e degli strumenti necessari a una situazione di guerra.

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