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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2015 alle ore 16:39.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2015 alle ore 16:49.

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Per la Spagna il 2015 sarà un anno di forti turbolenze politiche. Al voto di fine anno per rinnovare il Parlamento nazionale allo scadere della legislatura e alle consultazioni amministrative di maggio, si sommeranno le elezioni politiche in Catalogna convocate mercoledì sera dal governatore catalano Artur Mas.

La nuova sfida di Barcellona alla Spagna
Quella di Mas è l’ennesima sfida al governo nazionale. Il leader di Convergencia y Unio tenta di rilanciare la campagna per l’autonomia della regione più ricca della Spagna dopo che all’inizio di novembre «il processo verso la sovranità» si era arenato in un referendum popolare sull’indipendenza, svuotato di significato dai veti di Madrid e dai limiti imposti dalla legge spagnola.

Le elezioni in Catalogna si terranno il prossimo 27 settembre come ha annunciato lo stesso Mas che ha spiegato di aver raggiunto un accordo in tal senso con la sinistra indipendentista di Esquerra Republicana. Sarà la terza tornata elettorale in cinque anni, di nuovo in anticipo sulla naturale scadenza di quattro anni della legislatura regionale. «Il processo politico per l’indipendenza della catalogna va avanti e si rafforza. Verso la vittoria, verso la nostra, fino a che non avremo la meglio», ha detto Mas che punta a trasformare il voto anticipato catalano in un nuovo referendum, questa volta sì, pieno di significato politico e di conseguenze politiche.

I mercati in Spagna - concentrati su altre questioni, prima fra tutte l’attesa per le mosse della Bce e per le elezioni in grecia - hanno reagito senza particolari movimenti alle dichiarazioni di Mas. E il Tesoro di Madrid è riuscito a collocare con ottimi risultati e rendimenti ai minimi di sempre (0,849% sulla scadenza a cinque anni) titoli del debito per un totale di 4,68 miliardi di euro.

Il referendum «informale» del 9 novembre
La Catalogna gode già di ampia autonomia, nella salvaguardia della cultura, nell’uso della lingua, nelle forze di polizia sul territorio e in ambito economico. Ma il governatore Mas e il fronte indipendentista vuole andare oltre.

Nel referendum dello scorso 9 novembre, senza alcun valore giuridico per decisione della Corte Costituzionale, la scheda poneva due quesiti all’elettore: «Vuoi che la Catalogna sia uno Stato?». E in caso affermativo: «Vuoi che questo stato sia indipendente?». Alla consultazione avevano partecipato 2,3 milioni di catalani, pari secondo le stime più attendibili a circa il 37% degli aventi diritto al voto. E di questi circa 1,8 milioni si erano espressi per l’indipendenza da Madrid. Numeri sufficienti per avanzare legittime rivendicazioni ma non abbastanza alti da consentire decisioni unilaterali da parte della Generalitat.

«La strategia di Mas è di insistere per tenere alta l’attenzione sul processo di indipendenza e allo stesso tempo vuole avere tempo per recuperare consensi prima del voto. Ma la campagna elettorale rischia di alimentare divisioni nel fronte indipendentista. E alle urne il risultato è tutt’altro che scontato per chi vuole l’indipendenza», spiega Antonio Barroso, analista politico di Teneo Intelligence.

Le rivendicazioni e i dubbi dell’Europa
La Catalogna è la regione più ricca del Paese. Ha un Pil di 200 miliardi di euro che vale il 20% del prodotto interno lordo spagnolo e contribuisce a oltre il 25% delle esportazioni nazionali. Ma ha anche accumulato un debito di circa 60 miliardi di euro. Da anni chiede di rivedere il sistema di autonomie spagnolo nel quale le regioni pur avendo il controllo di oltre un terzo della spesa pubblica vivono di trasferimenti statali. Secondo il fronte indipendentista una gestione diretta del gettito fiscale da parte di Barcellona potrebbe migliorare i conti pubblici e dare slancio alle imprese catalane. Sarebbe di 16 miliardi di euro all'anno il divario tra le tasse raccolte nella regione e i trasferimenti dallo Stato.
I maggiori dubbi sull'indipendenza della Catalogna riguardano i rapporti con l’Unione europea e l’euro. Molte imprese catalane temono di dover operare in uno Stato marginale al di fuori della Ue. Con conseguenze profonde sulla fiducia dei mercati finanziari e sugli scambi commerciali.

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