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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2015 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 20 gennaio 2015 alle ore 08:21.
Barack Obama, alla vigilia del Discorso sullo Stato dell'Unione e nel lungo fine settimana dedicato a un paladino di diritti civili ed eguaglianza quale Martin Luther King, prende di petto la sfida della sperequazione sociale, apostrofata come il nuovo grande malessere anche di un'economia in ripresa come quella degli Stati Uniti. Come battaglia necessaria a rafforzare la salute della crescita e a ridare lustro al sogno americano.
E per combatterla ha deciso di sfoderare l'arma più controversa nell'arsenale della politica di Washington: una riforma fiscale a base di aumenti delle tasse sui ceti più abbienti - oltre 300 miliardi di dollari - per soccorrere i ceti medi.
Gli incrementi riguardano anzitutto le imposte sugli investimenti e quelle di successione sulle proprietà. L'aliquota massima sui guadagni di capitale passerebbe al 28% dal 23,8% per le coppie con redditi per oltre mezzo milione e colpirebbe un ventaglio più vasto di asset ereditati (scompare, ad esempio, un'esenzione sull'aumento di valore prima del decesso). La maggior pressione fiscale, nell'insieme, dovrebbe portare nelle casse federali 320 miliardi nell'arco di dieci anni consentendo di redistribuire 235 miliardi a favore dei redditi inferiori.
La redistribuzione alla classe media prescrive crediti triplicati a 3mila dollari per ciascun figlio a carico e un inedito assegno da 500 dollari per le famiglie dove entrambi i coniugi lavorano. Ancora: scatterebbe un'espansione di aiuti per l'istruzione e per i programmi di risparmio pensionistico, istituendo per le imprese un nuovo obbligo di offrire piani previdenziali automatici che dovrebbero riguardare fino a 30 milioni di dipendenti.
I repubblicani, che hanno conquistato lo scorso novembre la maggioranza in Congresso, sono subito insorti davanti ai primi dettagli di una strategia che fa leva su nuove tasse. Hanno assicurato che bocceranno l'agenda della Casa Bianca, accusata di essere un semplice tentativo dei democratici, nelle parole del senatore Orrin Hatch, di «comprare voti» per le prossime presidenziali del 2016. Sul fronte fiscale, oltretutto, è già congelata un'ipotesi di revisione delle tasse aziendali parsa più promettente per un compromesso, che abbasserebbe le aliquote in cambio della cancellazione di scappatoie e di entrate per 150 miliardi rivolte a progetti infrastrutturali.
Obama, però, ha molteplici ragioni per alzare il tiro sulla riforma fiscale davanti alle resistenze difficilmente superabili dell'opposizione: rilanciare, certo, la sua presidenza giunta agli ultimi due anni e l'identità del Partito democratico dopo la recente sconfitta alle urne. Ma anche rispondere alla “fronda” delle correnti più liberal e popolari oggi attive nel partito, che si identificano con la senatrice Elizabeth Warren del Massachusetts e che denunciano la leadership come troppo prudente e poco impegnata a correggere le diseguaglianze. La realtà delle tensioni che tuttora segnano la ripresa dalla grande crisi del 2008, una delle grandi rivendicazioni della Casa Bianca, è inoltre innegabile: i redditi medi degli americani sono rimasti stagnanti nonostante l'espansione. L'amministrazione ha tenuto a sottolineare che il 99% delle nuove tasse sui capital gains, nei suoi calcoli, ricadrà sull'1% più ricco della popolazione.
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