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Lo spread BTp-Bund cade sotto quota 100

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Lo spread BTp-Bund cade sotto quota 100

  • –Morya Longo

ECONOMIA E SPECULAZIONE

Il mercato scommette

sulla ripresa e sulla riforme,

ma il vero motivo del calo

dei rendimenti va cercato

negli imminenti acquisti Bce

Era il 12 maggio del 2010. L’Europa aveva appena salvato la Grecia per la prima volta. E, all’alba di quella che già appariva come la crisi dell’euro e della politica in Italia, lo spread tra BTp e Bund saliva sopra quota 100 punti base. Per la prima volta nell’era della moneta unica, insomma, l’Italia era costretta a pagare un punto percentuale di interessi in più rispetto alla Germania per trovare qualcuno disposto a comprare i suoi titoli di Stato. Sono passati quasi 5 anni. E dopo aver toccato la vetta di 575 punti nel novembre 2011, ieri lo spread è tornato a 100. Per qualche attimo è addirittura sceso a 98. Il livello assoluto dei rendimenti è oggi molto più basso rispetto a 5 anni fa, dato che i BTp decennali sono ora sul minimo storico a 1,35% mentre allora erano al 3,94%, ma lo spread con la Germania - quella specie di lettera scarlatta che per anni ha separato i buoni dai cattivi in Europa - è tornato su livelli più «normali». Un po’ meno stigmatizzanti.

Tanto che il mondo politico ha già iniziato a pavoneggiarsi: se Matteo Renzi con il consueto Tweet commenta «dai che è #lavoltabuona» e Raffaello Vignali del Nuovo centrodestra si accaparra un po’ di merito ricordando che «questo non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato Ncd a sostenere i Governi Letta e Renzi», sull’altro fronte Renato Brunetta di Forza Italia ricorda al premier che «c’è poco da esultare». La realtà, in effetti, è ben più complessa di come i numeri e i Tweet lascino intendere. Non solo perché il restringimento dello spread è in buona parte dovuto a elementi esterni all’Italia, cioè all’imminente «bazooka» della Bce. Non solo perché oggi l’Italia, dal punto di vista economico, sta per molti aspetti peggio rispetto al 2010. Ma soprattutto perché questa riduzione dei rendimenti non è ancora sufficiente per frenare la crescita del debito pubblico italiano. Aiuta, certo, ma non basta.

Le «forze» dietro lo spread

I motivi della discesa a 100 sono di due tipi. Innanzitutto il mercato vede la ripresa economica (in Italia si prevede per il 2015 un +0,5% del Pil) e apprezza (pur con tutti i «se» e tutti i «ma») lo sforzo riformatore del Governo Renzi: questo, soprattutto dopo la risoluzione parziale della crisi greca, rafforza la fiducia degli investitori. Dunque incentiva gli acquisti di BTp e fa scendere i rendimenti. Ma questo da solo non spiega un calo dei così pronunciato: si pensi che il BTp decennale rendeva quasi il 2% solo due mesi fa e quasi il 4% a fine 2013. A schiacciare così in basso i tassi è infatti soprattutto un motivo esterno: l’imminente «quantitative easing» della Bce. Lo dimostra il fatto che a scendere sono i rendimenti di tutti gli Stati europei, anche se oggi i rating sono mediamente più bassi che nel 2010, i debiti più elevati e la crescita più lenta per tutti.

A marzo l’Eurotower inizierà infatti a comprare titoli di Stato europei (e altri bond) per un importo mensile di 60 miliardi di euro. Questa massiccia campagna acquisti causerà, secondo molti economisti, una sorta di «effetto scarsità» sul mercato dei titoli di Stato: ci sarà un grande acquirente (la Bce), ma una penuria di titoli e - si teme - pochi venditori. Quando la Fed Usa adottò la stessa politica monetaria, il Governo federale - rileva Alberto Gallo, economista di Rbs - aveva un deficit tra il 10 e il 12%: questo obbligava lo Stato americano ad emettere molti titoli di Stato, dunque la Fed aveva un “parco-titoli” da comprare sempre più grande. In Europa invece oggi la situazione è diversa, perché il deficit medio degli Stati è intorno al 3%: questo significa che le emissioni nette di titoli di Stato (al netto cioè dei rimborsi) saranno molto ridotte e dunque la Bce avrà un “parco-titoli” ben più contenuto. Morale: molti investitori sono convinti che questa scarsità ridurrà ulteriormente i rendimenti e dunque - in anticipo - comprano BTp e titoli di tutta Europa. Si tratta insomma di speculazione.

Mini-tassi, ma il debito sale

Anche se solo in parte è merito nostro, tutto questo aiuta lo Stato italiano perché sulle nuove emissioni di titoli di Stato riesce a spuntare tassi d’interesse bassissimi. Certo, la Germania ha pur sempre un beneficio maggiore. Ma anche l’Italia ora può ridimensionare in maniera consistente la gigantesca spesa per interessi che ogni anno affossa i suoi conti pubblici (si veda pagina 4). Il problema è che, in un contesto di crescita economica molto bassa e di inflazione negativa, questi risparmi - utili - non saranno sufficienti per bloccare il continuo aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil (attualmente al 132%).

A penalizzare l’Italia è infatti la differenza tra i tassi d’interesse effettivi pagati sull’intero debito pubblico e la crescita nominale del Pil (che tiene conto anche dell’andamento dell’inflazione). Ebbene: se prima della crisi europea questa differenza era minima, negli ultimi anni è aumentata. Questo significa che l’Italia paga oggi troppi interessi rispetto ad una crescita nominale troppo bassa. Per cui, nonostante i tassi ai minimi storici, il rapporto tra debito e Pil continua a lievitare. Per stabilizzarlo, calcola Fabio Balboni di Hsbc, l’Italia dovrebbe avere un avanzo primario di bilancio (prima di pagare gli interessi) del 4% sul Pil rispetto all’attuale 1,6%, oppure un surplus primario del 2,5% associato a un tasso di inflazione al 2%. Anche se - osserva Balboni - un aumento dell’inflazione farebbe anche risalire i rendimenti dei BTp. Il calo dei tassi e dello spread quindi aiuta, ma non abbastanza. Servirebbe invece una robusta crescita economica.

Le incognite future

Restano alcuni interrogativi. Innanzitutto è lecito chiedersi se questo miglioramento sui tassi e sullo spread si tradurrà in benefici più forti sull’economia reale. È infatti evidente a tutti che oggi l’Italia è economicamente più debole rispetto al 2010: ha subito una lunga recessione (anche se proprio ieri i dati sul Pil hanno registrato un promettente +0,1% nel primo trimestre), ha un tasso di disoccupazione ben più elevato (era all’8,4% e ora sta al 12,9%) e molti indicatori ben peggiori. Questo è ovvio, dato che l’economia si muove molto più lenta della finanza: gli effetti congiunturali del super-spread del 2011-2012 li abbiamo dunque sentiti negli anni successivi. Il punto è capire se ora il mini-spread potrà aiutare la ripresa futura. Secondo molti economisti, la risposta deve essere positiva perché i tassi d’interesse bassi stanno facendo ripartire il motore inceppato del credito a imprese e famiglie in tutta Europa.

Il rischio è però che i tassi d’interesse dei BTp tornino presto a salire, come accadde negli Usa dopo l’avvio del «quantitative easing», dato che sono già molto bassi. E, soprattutto, il rischio è che il mercato stia sottostimando il possibile impatto delle vicende geopolitiche (Ucraina e Libia in prima fila), della crisi greca (risolta solo per 4 mesi), dell’incertezza politica legata alle elezioni in mezza Europa e del possibile rialzo dei tassi negli Usa. Alcuni analisti sostengono che l’effetto-scarsità sosterrà le quotazioni per un po’. Altri temono che presto possa arrivare l’inversione. Per ora, tra un Tweet e l’altro, non resta che sperare che spread e rendimenti restino bassi a lungo.

m.longo@ilsole24ore.com

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