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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2015 alle ore 06:38.

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ROMA

Confermati tutti i presidenti di commissione della maggioranza, sostituiti solo i quattro presidenti di Forza Italia: alla Difesa il democratico Francesco Saverio Garofani al posto di Elio Vito; alla Cultura Flavia Piccoli Nardelli, sempre del Pd, al posto di Giancarlo Galan; alla Affari costituzionali il deputato di Scelta civica Andrea Mazziotti Di Celso al posto di Francesco Sisto; alle Finanze Maurizio Bernardo, di Alleanza popolare, al posto di Daniele Capezzone. Per compensazione interna alla maggioranza, infine, Scelta civica lascia la presidenza della Affari sociali (finora guidata da Pierpaolo Vargiu) a Mario Marazziti di per l’Italia-Centro democratico.

Un giro di poltrone soft, dunque, quello previsto a due anni dall’inizio della legislatura, che serve per lo più a certificare la fine delle larghissime intese che portarono Forza Italia a sostenere il governo guidato da Enrico Letta. E anche il M5S esce ridimensionato, con solo 2 vicepresidenze, anche in seguito alle uscite che ne hanno assottigliato la pattuglia parlamentare. Nessun soccorso rosso da parte del Pd per l’elezione dei vicepresidenti azzurri (in tutto 6), come accusano i grillini: «Inutile che sbraitino, il M5S non si è confrontato con nessun altro partito e le opposizioni hanno fatto le loro scelte senza di loro».

La conferma di tutti i presidenti della maggioranza ha un valore soprattutto interno al Pd, essendo la maggior parte delle presidenze occupate da esponenti del primo partito. E la scelta di confermare tutti, anche coloro che non votarono la fiducia sull’Italicum (ossia Guglielmo Epifani), è una scelta di «apertura» alla minoranza interna. Come ha voluto sottolineare il capogruppo Ettore Rosato nell’assemblea democratica che ha suggellato l’accordo politico all’interno della maggioranza: «È necessario provare a ricostruire rapporti di lealtà di tutti nel gruppo e un clima di maggiore e leale collaborazione, auspicando che questa scelta venga intesa come segno di disponibilità». In questa direzione va anche la scelta di affidare il ruolo di vicepresidente vicario a Matteo Mauri, uno degli esponenti della minoranza dialogante (assieme a Cesare Damiano, Enzo Amendola e altri) che in occasione del voto sull’Italicum si è staccata da Area riformista di Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani.

Ma l’offerta di collaborazione di dialogo da una parte è compensata dall’altra dall’annuncio, fatto sempre da Rosato durante l’assemblea dei deputati dem, di un gruppo di lavoro per rivedere le norme statutarie in modo da rendere più stringente e vincolante il dovere di rispettare le decisioni del gruppo dopo gli strappi sull’Italicum e sulla scuola (nello statuto del gruppo della Camera l’unico riferimento alla questione è all’articolo 2, laddove si specifica che «ogni aderente al gruppo nello svolgimento della sua attività parlamentare si attiene agli indirizzi deliberati dagli organi del gruppo, che sono vincolanti»). Probabile che ci sarà un riferimento alla questione del voto di fiducia («chi non vota la fiducia al proprio governo si mette fuori dal partito», ha detto lo stesso Renzi nella direzione convocata dopo il via libera all’Italicum di maggio). «Ma il punto non è fare un elenco di sanzioni». Per altro sono implicite nel caso di certi comportamenti. A norme vigenti, insomma, si sarebbero già potuti espellere dal gruppo personalità politiche come Bersani e Cuperlo. «Noi non puntiamo alle sanzioni, la sanzione per noi è più politica che effettiva. La logica dell’espulsione non è la nostra, è la logica del Movimento 5 Stelle. La logica - continua Rosato - è quella di costruire un luogo condiviso in cui tutti esprimano il loro dissenso, se c’è, rispettando alla fine la decisione della maggioranza del gruppo».

Diverso il discorso in Senato, dove tuttavia la minoranza del Pd a differenza che alla Camera è determinante (sono 25 i “dissidenti” sulle riforme istituzionali laddove la maggioranza si tiene al momento su meno di 10 voti). Lo statuto del gruppo dei senatori del Pd prevede già la libertà di coscienza solo in alcuni determinati casi come «i temi etici». Ed è evidente che né il voto di fiducia né la legge elettorale o le modifiche alla seconda parte della Costituzione sono temi etici. C’è poi, indipendentemente dalle regole che si danno i gruppi parlamentari, il rispetto da parte degli eletti delle decisioni politiche votate dagli organismi del partito come la direzione l’assemblea. Che volendo si può rafforzare - e forse verrà fatto - con un intervento nello stesso statuto del partito, ma che è implicito. «In Italia il Partito democratico è l’unico partito che si chiama “partito” - dice il capogruppo a Palazzo Madama Luigi Zanda -. Tutti gli altri sono movimenti e hanno dei nomi che rimandano ad altro... E se ci chiamiamo “partito” è chiaro che dobbiamo avere le regole di un partito. Il valore vincolante delle delibere della direzione o dell’assemblea è fuori discussione».

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