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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2015 alle ore 08:11.

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“Io nun capisco ’e vvote che succede/e chello ca se vede nun se crede”. L’incipit della tammuriata napoletana sintetizza in due righe la via crucis di Bagnoli e vent’anni di colpi a vuoto. Era il febbraio del 1995 quando il sindaco Antonio Bassolino, dalla sua poltrona al secondo piano di Palazzo San Giacomo, aspirava avidamente una sigaretta e raccontava quasi con beatitudine che cosa sarebbe diventata l’area che ospitava l’acciaieria di Napoli: «Sarà un luogo di loisir (di piacere, Ndr)». Un po’ Beaubourg e un po’ parco tecnologico, con un porto turistico da 700 posti barca.

Vent’anni e sei mesi sono passati da quel giorno, quasi un’intera generazione, vent’anni durante i quali Bagnoli si è trasformata da cattedrale del fordismo, la grande fabbrica dove «gli operai offrivano il torace all’altoforno» (Ermanno Rea nel suo romanzo “La dimissione”) a monumento al nulla. Peggio: un monumento che testimonia una serie interminabile di errori che condanna l’élite al potere, convinta di detenere il monopolio della verità.

L’origine del disastro è racchiuso nella variante occidentale per Bagnoli-Coroglio, scritta di suo pugno dall’urbanista napoletano Vezio de Lucia. Dirà qualche anno più tardi Rocco Papa, docente di Urbanistica a Napoli, dunque collega di De Lucia, nonché vice sindaco di Rosetta Jervolino e infine capo di Bagnolifutura, la Spa pubblica di proprietà del Comune (con una quota marginale di Provincia e Regione) che avrebbe dovuto prima bonificare i quasi 200 ettari e poi venderli ai privati: «Quella di De Lucia su Bagnoli fu una variante ideologica che eludeva tre domande fondamentali: chi paga? Quanto costa? E quanto tempo ci vuole per realizzarla?».

Il virus dello statalismo con le casse a secco (il Comune di Napoli bordeggia il default dal secondo mandato della Iervolino, quindi dal 2005) aveva contagiato lo stesso Papa, che affermava con orgoglio: «Solo il pubblico può prevedere un indice di edificabilità di 0,68 metri cubi al metro quadro e un parco di 120 ettari».

Il risveglio è stato amaro. Uno dopo l’altro saltano i paletti fissati dal Comune. Le gare per vendere i terreni ai privati vanno tutte deserte, il parco da 120 ettari con costi di manutenzione incalcolabili non verrà mai realizzato. Carlo Borgomeo, predecessore di Papa al vertice dei Bagnolifutura, rassegna le dimissioni (era il 2007) quando la Iervolino lo informa che la Stu, la società di trasformazione urbana incorporata nella Spa comunale, avrebbe dovuto limitarsi a vendere ai privati dei terreni che nessuno era (ed è) disposto a comprare. («per far questo è sufficiente un ingegnere appena laureato», disse Borgomeo sbattendo la porta).

Il fallimento di Bagnolifutura del 2013 è la logica conseguenza dei costi fuori controllo per la bonifica e di una serie di aziende, tra le quali Fintecna, che chiedevano al Comune di rientrare dei loro crediti. Così come nessuno si meraviglia quando i magistrati sequestrano l’area dopo aver indagato sulle tecniche di bonifica e inviano una raffica di avvisi di garanzia per disastro ambientale.

Potrebbe essere la parola fine per una delle tante partite perse del Mezzogiorno d’Italia, un riscatto presunto che si traduce in una disfatta. Invece, quasi fuori tempo massimo, i monopolisti della verità piazzano ancora uno dei loro catastrofici colpi. Bruciano 80 milioni per un centro congressi, un’area termale (entrambi un duplicato, perché a pochissimi chilometri da Bagnoli ci sono la mostra d’Oltremare e le terme d’Agnano) e un parco dello sport, strutture mai inaugurate che dal 2011 marciscono al sole.

Racconta Edward Luttwak, lo studioso americano con il pregio del pragmatismo: «Confesso che in un momento di follia dirottai il mio volo privato a Capodichino per presentare al neo governatore Stefano Caldoro, a me erroneamente descritto come un uomo di buona volontà, il piano Oceanworld per Bagnoli. La richiesta alla Regione e allo Stato era solo una: un raccordo autostradale».

In cambio, un fondo sovrano di Hong Kong avrebbe investito 2,5 miliardi per costruire alberghi con 3mila camere, venti ristoranti, dei grandi parcheggi e un magnete che sarebbe diventato un’attrazione mondiale. Caldoro prese tempo. E non rispose né sì né no. Luttwak ci rimase male: «Ricordo solo di aver perso un sacco di tempo». Il suo messaggio resta: «Affidate la pratica ai privati. I soldi pubblici sono fonti di ruberie».

Se a Luttwak è andata male, non è escluso che Matteo Renzi non la spunti. L’approccio è spiccio come quello degli americani. Nel decreto sblocca-Italia il premier si appella al “sito d’interesse nazionale”. Una locuzione che gli ha consentito di avocare a sé la questione. Salvo Nastasi vicedirettore generale in pectore (a costo zero) della presidenza del Consiglio dei ministri e commissario straordinario. A Sviluppo Italia, la società in house dello Stato, il compito di completare la bonifica e attrezzarsi per attrarre investitori. Non è la teoria Luttwak (non ci sono soprattutto i 2,5 miliardi dei cinesi), ma è un tentativo disperato di tirare su la cloche. Una scelta contestata da De Magistris, che a quattro anni dal suo insediamento si sente defraudato dei poteri di sindaco. E replica con una sventagliata di ricorsi alla Corte costituzionale, al Tar e al tribunale ordinario. Non pago, minaccia una raccolta di firme per abrogare con un referendum lo sblocca-Italia. Tutto secondo copione. Guai a far mancare il lavoro agli azzeccagarbugli.

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