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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2015 alle ore 06:35.

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Tra le aree che hanno sofferto di più la crisi ci sono il Sud e le Isole, ma anche Roma e diverse Province della Lombardia: da Milano a Como, da Bergamo a Lecco e Monza-Brianza. Tutte zone in cui il reddito medio dichiarato al fisco nel 2014 risulta di oltre il 4% più basso rispetto ai livelli di cinque anni prima, considerando gli effetti dell’inflazione.

I dati delle Finanze per gli anni d’imposta 2008-2013 – aggregati su base provinciale dal Sole 24 Ore del Lunedì – permettono di ricostruire l’andamento dei guadagni delle famiglie attraverso gli importi indicati nel modello Unico, nel 730 e nel Cud da oltre 40 milioni di contribuenti italiani. Certamente, i numeri ufficiali non conteggiano l’evasione fiscale, ma regalano comunque un punto di vista inedito.

Il primo dato che salta all’occhio è l’impoverimento generale. Se si ragiona a parità di potere d’acquisto, si vede che su oltre 100 Province – considerando per omogeneità di confronto anche quelle sarde in via di abolizione – ce ne sono soltanto tre in cui il reddito dichiarato è cresciuto: Belluno, Bolzano e L’Aquila (dove il dato, però, potrebbe segnalare un recupero dopo l’annus horribils del terremoto del 2009, più che una vera crescita). Il secondo aspetto da non trascurare è l’intensità del calo: soltanto in una manciata di casi fortunati la contrazione è sotto l’1%, mentre in quasi metà delle Province i redditi sono diminuiti più del 3%, fino alle punte di Prato (-6,07%) e Olbia-Tempio (-6,67%).

Sono numeri che contengono in sé le cause e gli effetti della crisi. Da un lato, si capisce bene da dove sia partita la stagnazione della domanda interna, con la spesa media mensile delle famiglie diminuita del 6,7% tra il 2008 e il 2013 secondo l’Istat. Dall’altro, si intravede la difficoltà delle aziende che non hanno potuto sfruttare lo sbocco dell’export, perché nella metà bassa della classifica – oltre alle province lombarde – ci sono anche altre aree produttive storiche come Bologna, Reggio Emilia, Padova e Treviso.

Del resto, basta pensare che il 56% dei redditi dichiarati al fisco arriva dai lavoratori dipendenti e il 35% dai pensionati per capire quanto possano aver pesato sul dato generale le ore di cassa integrazione, la mobilità e i licenziamenti. Anzi, c’è quasi da stupirsi che il calo medio del reddito – a livello nazionale – sia stato “solo” del 3,27%, mentre nello stesso periodo l’Italia ha perso 9 punti di Pil. Ma qui ad attenuare l’impatto della crisi hanno contribuito le pensioni e gli stipendi del settore pubblico.

In gioco, comunque, non ci sono solo i conti delle famiglie, ma anche quelli dello Stato. Negli ultimi cinque anni i contribuenti che dichiarano un «Reddito complessivo» maggiore di zero sono diminuiti di oltre 850mila, e il totale dei redditi – che pure in termini nominali è cresciuto di 27 miliardi – a valori costanti è calato di 47 miliardi. E non è difficile accorgersi che il blocco degli adeguamenti contrattuali nel pubblico impiego è servito (anche) a fare in modo che lo Stato potesse pagare gli stipendi con la moneta “di ieri”, ignorando almeno in parte la riduzione della base imponibile reale.

Ecco perché, guardando alla legge di stabilità per il 2016 su cui diversi esponenti del Governo hanno già iniziato a ragionare pubblicamente, diventano decisivi gli ultimi indicatori economici. Pensiamo al Pil in crescita nel secondo trimestre (+0,2%), ma soprattutto al crollo delle ore di cassa integrazione a luglio (-26,9% su base annua) e alle 650mila assunzioni stabili con la decontribuzione, che nell’obiettivo indicato dall’Esecutivo dovrebbero diventare un milione entro fine anno: da qui potrebbe partire una “ripresina” anche dei redditi dichiarati al fisco. Un elemento che, se sarà accompagnato dall’emersione dell’evasione, renderà un po’ meno complicata la prossima manovra.

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