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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2015 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 30 agosto 2015 alle ore 15:30.
roma
Con il passare dei giorni e l’avvicinarsi della ripresa dei lavori parlamentari, il braccio di ferro tra Matteo Renzi e la minoranza del Pd sulla riforma del Senato si fa sempre più duro. La minaccia più o meno velata del premier di tornare alle urne, in caso di bocciatura del ddl costituzionale, non sembra aver fatto breccia nella minoranza dem, che mantiene il pollice verso sul ddl Boschi se non si modificherà l’articolo 2 reintroducendo l’elezione diretta dei senatori.
Un punto su cui il Governo non è disposto a cedere.Il vicesegretario Dem Lorenzo Guerini ha manifestato sì la disponibilità al confronto ma ha anche confermato il «no» a rimettere mano alla norma considerata il cuore della riforma («Sarebbe un messaggio profondamente sbagliato»).
Un muro contro muro che va al di là della contingenza parlamentare. «Si vedrà se il pluralismo sia considerato un tratto fondativo del Pd o una copertura utile in qualche occasione», attacca Vannino Chiti che provocatoriamente dice di rimpiangere il «centralismo democratico» del Pci: «Il confronto interno anche su temi rilevanti è sostituito da battute, attacchi personali, insulti. Il Pd rischia di essere non un partito di centrosinistra ma un partito di centro che occhieggia a destra». Nessuna scissione in vista, assicura però Miguel Gotor perché «i segretari passano ma il progetto resta».
Posizioni che lasciano poco spazio al raggiungimento di un’intesa e che mettono a rischio la tenuta del Governo. Non caso il renziano Andrea Marcucci sottolinea che il Pd non è chiamato a scegliere «tra obbedienza al governo Renzi o scissione» ma a evitare che si ripeta lo stesso errore che portò alla fine dell’Ulivo: «Tra la ditta e il caos c’è una via di mezzo ed è il rispetto del principio di maggioranza». Per Marcucci la riforma del Senato «è un obiettivo storico del centrosinistra, azzerarla a un passo dall’approvazione sarebbe un capolavoro da Tafazzi, e un regalo immeritato a conservatori e populisti che sono purtroppo compagni di viaggio della minoranza Pd».
Un’accusa che la minoranza però respinge. «Basta con gli insulti», è la replica di Federico Fornaro che invita la maggioranza del suo partito ad usare « il poco tempo che abbiamo per ricercare una sintesi possibile». L’8 settembre infatti la riforma tornerà a essere al centro dei lavori della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Vista la mole di emendamenti presentati (oltre 500mila) appare probabile che il provvedimento arrivi al voto senza il vaglio preventivo della commissione. Il muro contro muro rischia quindi di protrarsi fino al show down finale della conta in aula. Contrapposizioni che certo non aiutano a «fare una riforma seria», ha ammonito l’ex premier Romano Prodi che ha anche bacchettato Renzi per aver attribuito «lo stallo» del Paese negli ultimi vent’anni alla contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo.
A cercare di spegnere gli incendi estivi interni ai Dem ci prova in serata - dopo la raffica di accuse e controaccuse - il sottosegretario alla presidenza, Claudio De Vincenti, che punta tutto sulla diplomazia: «È un fatto di grande responsabilità nazionale portare fino in fondo questo percorso di riforme avviato» e per questo si è detto convinto che «la maggioranza sarà capace di andare fino in fondo».
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