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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2015 alle ore 06:37.

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Una trattativa vera e propria ancora non c’è e in agenda non sono previsti incontri. Ma sulla riforma del Senato i pontieri nel Pd sono all’opera per evitare che il partito arrivi diviso alla conta in Aula. Matteo Renzi resta fermo sulla inemendabilità dell’articolo 2, ovvero la norma che ha cancellato il bicameralismo perfetto introducendo l’elezione indiretta dei senatori. Una posizione che potrebbe però essere rimessa in discussione dal presidente del Senato Piero Grasso. L’alto numero di emendamenti presentati in commissione Affari costituzionali (oltre 500mila e gran parte sull’articolo 2) di fatto costringerà la presidente Anna Finocchiaro a rinviare l’esame del testo direttamente in aula senza mandato al relatore. A quel punto sarà Grasso a dover decidere il «che fare» dopo aver sentito il parere della Giunta per il regolamento nella quale Renzi non ha però la maggioranza.

Il presidente di Palazzo Madama ieri ha smentito seccamente di aver già deciso a favore dell’ammissibilità degli emendamenti all’articolo 2 («C’è ancora tempo prima che sia chiamato a esprimere le mie decisioni») e anche di averne parlato con il Quirinale. Smentita ribadita in serata anche dal Colle che sottolinea di non aver ricevuto «nessuna comunicazione» da Grasso relativa alla riforma del Senato. Ma al di là di quale sarà la decisione sull’ammissibilità degli emendamenti, le divisioni interne al Pd mettono a serio rischio la maggioranza sul ddl costituzionale.

I renziani di stretta osservanza sostengono che in realtà i numeri ci sono e ricordano che in questa fase non serve arrivare a 161, poiché è sufficiente la maggioranza relativa. Stando a quanto viene proclamato ufficialmente, al momento i contrari al provvedimento superano nettamente i favorevoli (si veda il grafico qui accanto). È probabile che, come per altro già avvenuto in occasione di altre votazioni, più di qualcuno nell’opposizione possa decidere di non presentarsi in aula rendendo così più agevole il raggiungimento del quorum. A rafforzare questa tesi è soprattutto la minaccia niente affatto velata di una crisi che porti dritti alle elezioni. Almeno questo ha lasciato intendere Renzi e questo hanno ripetuto diversi esponenti del Pd e del governo.

Il premier è pronto ad «aggiustamenti» ma non a rimettere mano al cuore della riforma ovvero alla fine del bicameralismo perfetto e all’ineleggibilità. Dunque, come conferma il capogruppo alla Camera Ettore Rosato, piena disponibilità ad attuare «il metodo Mattarella» invocato da Pier Luigi Bersani, con riferimento all’intesa sul nome del Capo dello Stato raggiunta allora nel Pd, ma sulle riforme «si deve andare avanti» e non rimettere in discussione «ciò che è stato già votato due volte: il Senato non può tornare ad essere elettivo».

Le probabilità che si vada a una conta in Aula sono in questo momento ancora molto alte anche se si attende il discorso che Renzi terrà a Milano nel fine settimana per la chiusura della Festa dell’Unità. Qualcuno nel frattempo sottotraccia sta lavorando per evitare lo show down (a partire dal capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda). Scartata dalla minoranza dem la proposta del cosiddetto listino (l’iscrizione a parte dei candidati senatori di ciascun partito alle elezioni regionali), si starebbe ipotizzando l’introduzione del principio secondo cui «i cittadini concorrono» alla scelta dei senatori espressione delle singole realtà territoriali. In questo modo verrebbe sancita a livello costituzionale la concorrenzialità nella individuazione dei senatori non affidandola meramente ai Consigli regionali. Basterà? Finora la minoranza dem ha respinto tutte le ipotesi che non coinvolgevano la riscrittura dell’articolo 2. Anche il rischio di mettere in crisi il governo e di tornare al voto viene ritenuto inverosimile («è una pistola scarica, Mattarella non ci porterà al voto»). Un muro contro muro che con l’avvicinarsi della riapertura dei lavori parlamentari (l’8 settembre) diventa sempre più difficile da abbattere.

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