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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2015 alle ore 06:36.
roma
Di rimettere mano all’Italicum in cambio del voto di Fi sulla riforma del Senato non se ne parla. Matteo Renzi è categorico: «La politica non è il Monopoli, la legge elettorale l’abbiamo fatta con Fi e l’hanno votata anche loro». Il premier è convinto che i numeri per il via libera di Palazzo Madama al ddl costituzionale ci saranno. Ma certo non è un caso se nell’intervista concessa ieri mattina a RTL anzichè tornare a ventilare le elezioni anticipate e a prendersela con la minoranza del suo partito abbia scelto di mettere nel mirino Fi. Anzi, con riferimento al confronto interno al Pd, arriva a dire che sì «ci sono elementi di differenza», che bisogna ancora capire «cosa succede dell’articolo 2» ma la discussione è «tranquilla». L’importante - dice - «è portare a casa un Paese che funzioni meglio», con «meno politici e più politica in Parlamento». Concetti che ribadirà poco dopo in un tweet in cui torna a prendere di mira il Cavaliere: «Il Berlusconi prima maniera parlava della questione degli italiani ora anche lui non parla d’altro che d’Italicum».
Parole che provocano la reazione di Renato Brunetta altrettanto convinto che il premier invece non avrà voti sufficienti e ventilando la conseguente crisi di governo («Renzi non mangerà il panettone»). Una replica che Renzi aveva messo in conto e che paradossalmente gioca a suo favore. Il timore di una crisi al buio e della fine anticipata della legislatura sono armi da sempre utili alla causa dei governi. E poi anche Renzi è arrivato alla conclusione che la partita se la deve giocare anzitutto all’interno del Pd, a partire da quei 28 senatori che hanno sottoscritto gli emendamenti per il ritorno al Senato elettivo. «Le riforme? E chi lo sa come andrà a finire», diceva ieri Pier Luigi Bersani intercettato alla Camera dall’AdnKronos. La minoranza Dem attende un segnale dal segretario-premier. «Ci faccia capire se intende trovare un’intesa dentro il Pd piuttosto che rivolgersi a Verdini e altri...».
Il compromesso resta sempre legato alle modalità di elezione dei senatori. La minoranza Dem chiede che la scelta sia affidata ai cittadini, come avviene attualmente, e quindi di rimettere mano all’articolo 2 che invece introduce il principio dell’elezione indiretta da parte dei consigli regionali in quanto il Senato non ha più la funzione di votare la fiducia al Governo ma solo quella di rappresentare le istanze territoriali. A risolvere la questione potrebbe essere il presidente del Senato decidendo l’emendabilità o meno dell’articolo 2. E se, come appare probabile, Grasso opterà per un’ammissibilità parziale (relativa solo alla modifica di una preposizione) gli emendamenti per il ripristino dell’elezione diretta non sarebbero messi in votazione. Lo stesso Grasso però ha invocato in più di un’occasione che si arrivi a una «soluzione politica».
«Renzi promuova una sede di confronto: chi ha maggiori responsabilità deve avere anche la capacità di maggiore ascolto», esorta Cesare Damiano che assieme al ministro Martina guida la cosiddetta «minoranza dialogante». Per Damiano un «compromesso onorevole» potrebbe essere rappresentato dal cosiddetto «listino», ovvero l’indicazione a parte dei senatori candidati dalle singole forze politiche in occasione delle elezioni regionali. Ipotesi che finora la minoranza ha però respinto ma che tornerebbe d’attualità qualora non fosse ammessa l’emendabilità dell’articolo 2. Anche perché gran parte di quei 28 senatori ha più volte sottolineato di non avere come obiettivo la fine dell’esecutivo o l’uscita dal partito. Adesso la palla passa a Renzi, atteso domenica alla chiusura della Festa dell’Unità di Milano. La partita comunque resta tutta dentro il Pd.
Lo ha capito anche Berlusconi. Il Cavaliere non ha alcuna intenzione di facilitare il lavoro al premier ma allo stesso tempo non vuole rimanere ostaggio della Lega. E i sondaggi della Ghisleri, che danno l’asse Fi-Lega un punto sopra il Pd (31,5 contro 30,5), lo confortano. Per questo l’ex premier ha dato mandato a Giovanni Toti di chiedere alla Lega di «ritirare la serrata di novembre» per aprire «subito un tavolo delle opposizioni per una manifestazione comune». Salvini però non ci sta. «Noi la serrata la facciamo comunque», dice il leader del Carroccio che dà appuntamento a Berlusconi per un faccia a faccia «dopo il derby» tra Inter e Milan e quindi dopo il 13 settembre.
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