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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2015 alle ore 08:13.

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«Occupatevi di economia, che è cosa ben più seria». Così dicono alcuni dei senatori, di maggioranza e di opposizione, che minacciano di non votare il ddl Boschi di riforma della Costituzione. Al di là delle valutazioni di stretta convenienza politica, di fronte a questa posizione non si può non argomentare che il cambiamento della Costituzione non è estraneo a un disegno di riforma dell’economia, ma ne è parte essenziale. Un sistema composto da due camere con uguali poteri non è efficiente. L’inefficienza può essere misurata dal tempo necessario per approvare le leggi, ma anche e soprattutto dalla loro qualità. Nell’intervento del 15 luglio scorso alla commissione Affari Costituzionali del Senato, il Presidente Napolitano lo ha spiegato in termini davvero efficaci, quando ha ricordato che il bicameralismo paritario «ha contributo a generare dei mostri». E ciò perché esso è stato «tra i fattori determinanti di una pluridecennale vicenda di fragilità dei governi nel nostro paese, di discontinuità dell’azione di governo e di incertezza nello svolgimento delle legislature». Di qui, secondo Napolitano, i fenomeni di «governi che ricevevano dagli elettori un’investitura di maggioranza nell’un ramo del Parlamento e non nell’altro, facile vulnerabilità del rapporto di fiducia così stabilitosi in quei casi tra Parlamento e governo, faticosa e convulsa gestione del procedimento legislativo». In sostanza, il bicameralismo paritario genera leggi “mostruose” perché in aula e nelle commissioni ogni sottoinsieme di parlamentari ha un forte incentivo a costruire una propria minoranza di blocco, tale comunque da impensierire il governo e indurlo a dare qualcosa in cambio. Solo così, ci insegna James Buchanan, i parlamentari ottengono cose perfettamente legittime, ma anche posti e favori. Quando ci sono due camere che tipicamente hanno maggioranze diverse, anche solo su singole questioni, il grado di complessità determinato dalla presenza di minoranze di blocco cresce esponenzialmente.

Per i cittadini e per le imprese, una situazione di questo tipo ha un nome molto semplice, burocrazia, quella burocrazia che è unanimemente considerata la palla al piede della nostra economia. Tanti passaggi, in un iter legislativo come in quello per un’autorizzazione, significano tempo, ma soprattutto incertezza, deresponsabilizzazione, risposte contraddittorie, rischio di scambi impropri, soluzioni spesso confuse. Nei casi in cui, in diversi passaggi di una data pratica, le competenze si sovrappongono, la virtù precipua del burocrate è di far valere le proprie cosiddette prerogative. La frase «non siamo mica dei passacarte» risuona nei corridoi dei ministeri così come nelle aule di ogni camera dopo che una legge è stata approvata dall’altra camera. È come se i deputati non si fidassero dei senatori e viceversa, con il risultato che tutti i passaggi del procedimento legislativo devono essere ripetuti tante volte quante sono le letture, con un colossale spreco di risorse umane e materiali. Ne vanno di mezzo il bilancio pubblico, la qualità delle leggi e il benessere dei cittadini. Verrebbe da dire che il pesce della burocrazia puzza dalla testa. Se non riusciremo ad abolire la madre di tutti le duplicazioni e di tutti gli sprechi è difficile pensare che riusciremo a fare qualcosa di buono nel resto della Pa. Ogni funzionario pubblico avrà un buon motivo per argomentare che è indispensabile, né più né meno di un senatore.

Ovviamente occorre tenere nel debito conto le considerazioni giuridiche relative all’equilibrio dei poteri. Senza qui entrare nel merito di una questione assai ampia, non si può non osservare che c’è quantomeno un difetto di motivazione nella richiesta di cambiamento della riforma nella direzione del Senato elettivo in ragione del solo fatto che la legge elettorale nel frattempo approvata prevedrebbe un numero eccessivo di deputati “nominati”, ossia svincolati dal meccanismo, non sempre virtuoso, delle preferenze. Il numero di deputati eletti con le preferenze, posto che esse vengano espresse, fa davvero ben poca differenza ai fini del tasso complessivo di democraticità del sistema. La motivazione forse appare in controluce qualora, una volta stabilito che i senatori sono elettivi, l’intenzione fosse quella di proporre per essi una legge elettorale proporzionale con la finalità di argomentare che essi avrebbero una più solida legittimazione popolare per fare leggi e per fare o disfare i governi di quanto non ne abbiano i deputati “nominati”, per di più con premio di maggioranza. Ed allora, anche se non si prevedesse un formale voto di fiducia da parte del Senato, sarebbe vanificato l’intero scopo delle riforme. Come avviene oggi, i governi sarebbero costretti di fatto a trovare una maggioranza in ciascuna delle due Camere e il Paese continuerebbe a galleggiare nell’instabilità in cui versa da decenni. Tutte le idee in materia di riforme istituzionali sono ovviamente legittime, ma non si può dire che l’economia non c’entra.

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