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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2015 alle ore 08:13.

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Anche se gli occhi sono ora puntati sul Senato,saranno gli elettori a decidere in ultima istanza della forma delle nostre istituzioni democratiche, con un referendum popolare. Una bella responsabilità, per la complessità e per l’importanza dell’argomento sul funzionamento dell’intero paese, e per i contrasti che lo stesso suscita. Ma non solo. La stessa virulenza di un “prepartita” in atto da settimane al Senato, che arriva a lambire simboli quali la terzietà della presidenza di assemblea e delle stesse amministrazioni parlamentari - indiziate di perseguire soluzioni corporativamente convenienti –, ne fa testo. L’infinità di emendamenti prodotti dalla tecnologia, senza intervento umano - più di cinquecentomila fino ad ora - rischia poi di trasformarsi, da arma letale di opposizioni goliardiche, nella possibilità concreta offerta alle maggioranze di neutralizzare l’esame referente in commissione come modellato nella Costituzione, e in un esame in aula con in palio la consueta fiducia al governo.

Converrà, agli elettori, cercare di capire il più possibile da sé, diffidando di un dibattito sopra le righe, povero di spessore istituzionale quanto ricco di implicazioni politiche, sia all’interno dei partiti che tra gli stessi. E, quindi, converrà conoscere gli obiettivi dichiarati della riforma, e raffrontarli con gli strumenti individuati per la loro realizzazione.

Gli obiettivi sono essenzialmente tre: nell’ordine, la riduzione drastica dei tempi di approvazione delle leggi, il rafforzamento della posizione costituzionale del capo del governo; infine, il riassetto delle rispettive competenze tra centro e periferie, per la necessità di correggere una riforma costituzionale recente: come a dire, non basta chiamarsi riforme per esserlo.

Tenendo conto che il referendum consente un solo voto d’insieme, un sì o un no complessivi, lo snellimento dell’iter parlamentare è un obiettivo corretto e congruo, assai più dello strumento utilizzato,la differenziazione dei due rami del parlamento, quasi la separazione di due gemelli siamesi.

È mancata, alla riforma, la base fondativa di un vera e documentata disamina delle ragioni della lentezza delle nostre camere, che viene addebitata scolasticamente al meccanismo di duplicazione. L’impotenza annosa di ciascuna camera, singolarmente, a dare risposta su alcune materie, ne è una prova, che obbliga via via altre istituzioni a un improprio ruolo di surroga: ad esempio, in materia di diritti civili, sui temi cosiddetti etici, nei meccanismi elettorali, ed altro. La stessa neoprevisione costituzionale di una gabbia temporale, entro la quale sia garantita l’approvazione di un disegno di legge, non è una soluzione al problema. Che non è procedurale, bensì politico ed istituzionale; e riguarda i meccanismi di selezione dei parlamentari, e degli eletti in genere, e la qualità della dirigenza politica nel suo insieme. L’obiettivo di semplificare una funzione passa per la vivisezione, l’escavazione del problema, anzichè per la sua banalizzazione.

Le carenze di approfondimento sul primo obiettivo influenzano inoltre il rafforzamento dei poteri del “primo ministro”, con il quale si ufficializza la subordinazione delle camere al governo, la loro assimilazione, fino a non distinguere partiti e gruppi parlamentari, partiti e camere, lealtà di partito e autonomia costituzionalmente garantita ai parlamentari. Una criticità che connota per intero l’ultimo ventennio , legata alla personalizzazione dei leader degli schieramenti e ad una presunta elezione diretta dei capi di governo. Resta da vedere se su questo tema il giudizio popolare si collegherà all’apprezzamento del ruolo assunto dagli ultimi capi dello stato, di moderazione della tendenza “ governocentrica “ tutt’ora imperante. Manca,nel testo in esame, la consapevolezza che un rafforzamento in senso presidenziale passa per il rinvigorimento delle prerogative del parlamento, e non per il suo contrario. Ne sa qualcosa, in termini di sofferenza, l’”uomo più potente del mondo”, il presidente degli Stati Uniti, che ha nelle camere un contropotere ostico quanto intransigente. E che non si arroga il potere, rivendicato dai nostri governi, di nominare i parlamentari, potere depressivo della qualità della politica e dell’autonomia di deputati e senatori.

Perde qualche potere il Capo dello Stato, in materia di formazione dei governi e di scioglimento delle camere. Poteri in parte già dismessi in via di fatto, ora non più recuperabili in alcun caso. Forse non sarebbe male ricordare come, nella stessa seconda repubblica, il capo dello stato pro tempore abbia rifiutato la nomina di ministri proposti dal premier, nell’interesse istituzionale collettivo. Si illude, peraltro, chi ipotizza che il presidente della repubblica divenga spettatore di soprusi nelle relazioni istituzionali, sbiadendo le sembianze di risolutore indiscusso delle tensioni. Al contrario, della funzione piena, anche nella versione recente, di garante dell’intero quadro istituzionale del capo dello Stato, che rimane inalterata, ci sarà bisogno proprio a tutela delle istituzioni meno tutelate dalla riforma. Nessun uomo solo al comando, recita la visione delle relazioni istituzionale che il presidente Mattarella ha appena sigillato in una occasione istituzionale, al cospetto della stampa parlamentare e delle autorità di governo.

L’intera riflessione presuppone, guardando al referendum, che un testo di riforma costituzionale esca dalle camere, approvato nelle letture canoniche in identico testo. Siamo ancora, in questo caso opportunamente, nella capacità di ripensamento di un sistema pienamente bicamerale. Se c’è bisogno di un restauro costituzionale, e c’è, che sia il più possibile meditato, ed insensibile agli appelli ansiogeni che vengono a favore di una approvazione comunque rapida.

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