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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2015 alle ore 06:36.
Zitta zitta la provincia autonoma di Trento ha spalancato il suo maso ai rifugiati di mezzo mondo (1.660 dal marzo del 2014). Un modello che piacerebbe a papa Francesco. Lontani dalle risse dei talk show e dalla sollevazione antimigranti del Veneto leghista, i trentini hanno organizzato un modello di accoglienza con tanto di adozione non nelle singole parrocchie ma nelle famiglie disseminate tra le valli alpine, meglio se tra i paesi a rischio di spopolamento o con un numero significativo di anziani. A spiegare l’approccio trentino è Stefano Canestrini, coordinatore del Centro Astalli di Vicenza e di Trento, una onlus specializzata nell’accoglienza dei migranti, dunque il giudice più imparziale per valutare le differenze di metodo tra le due regioni confinanti. In Trentino, a differenza che in Veneto, non si è fatto l’errore di delegare le politiche per gli immigrati ai prefetti e alle onlus, deresponsabilizzando la Regione e le amministrazioni locali che nel dubbio hanno preferito lavarsene le mani. La provincia autonoma già nel lontano 2002 crea un’unità operativa – Cinformi – alla quale fanno capo tutte le organizzazioni che in un modo o nell’altro hanno a che fare con i migranti. Il prefetto di Trento deve preoccuparsi solo di comunicare il numero dei migranti in arrivo. Al resto pensa Pierluigi La Spada, il dirigente che in collaborazione con la Protezione civile ha messo in piedi il centro di prima accoglienza – nella frazione Marco a Rovereto – dove poi si decidono i destini dei richiedenti asilo che aderiscono al programma Sprar e degli altri migranti. Il secondo filtro avviene alla residenza Brennero di Trento, dove una cooperativa sociale ha messo al lavoro una dozzina di ragazzi africani che negli ultimi mesi hanno sfornato 300 agendine tipo moleskine, costo da otto a dieci euro, con la copertina ricavata dalle camere d’aria delle biciclette e la carta riciclata decorata a mano. Le agende si chiamano Kibo, come uno dei tre coni vulcanici del Kilimangiaro («un modo per simboleggiare il legame tra le montagne africane e quelle trentine» dice Alessandro Bezzi, responsabile della cooperativa Kaleidoscopio), e sono state confezionate in un laboratorio ribattezzato Ora (Officina richiedenti asilo). Il ricavato sarà vincolato a iniziative dedicate ai migranti.
Buonismo? A Trento schivano la domanda senza replicare. E per far capire che non si tratta d’improvvisazioni forniscono indirizzi e numeri di telefono delle famiglie, almeno una mezza dozzina, che dalla primavera scorsa ospitano i richiedenti asilo. Una sperimentazione, ma qualcuno la chiama un’adozione in piena regola, anche se temporanea, con risultati ben più che incoraggianti. A Riva del Garda la signora Franca, un’impiegata di 59 anni con un passato da maestra elementare, ci tiene a non far conoscere il suo cognome «perché è sempre buona regola non pubblicizzare i gesti di solidarietà». Nella sua villetta a due piani con l’orto vivono Mamadou 1 e Mamadou 2, due venticinquenni del Mali che casualmente portano lo stesso nome. Il clima che si vive a casa della signora Franca l’ha esclamato la nipotina di questa impiegata trentina dopo un pranzo domenicale in giardino in cui i Mamadou si sono cimentati nel loro piatto nazionale, uno spezzatino con cous cous di carne: «Ma che bel pranzo di famiglia!». Franca riceve dalla provincia 9,50 euro al giorno per ognuno dei migranti, ma ha deciso di vincolare la metà di questa cifra a beneficio dei due ragazzi del Mali. Se qualcuno prova a farla passare per benefattrice, lei cita uno a uno gli oggetti portati in dono dai suoi vicini per i Mamadou: due biciclette, un pc, una piccola televisione, capi d’abbigliamento e lenzuola. Naturalmente i due ragazzi africani contribuiscono come possono: l’orto e il giardino sono sotto la loro cura. E durante la vendemmia vengono ingaggiati come stagionali. Un’isola, anzi un maso, felice? Canestrini cita anche le esperienze positive di Flavon e Castelfondo, sempre in Trentino. Lui che conosce per esperienza vissuta anche realtà come Roma, Catania, Napoli, Palermo e Milano, città dove opera il centro Astalli, ammette che nella gestione dei migranti il Trentino è un unicum. Il segreto: diluire la presenza dei migranti nei piccolissimi centri, luoghi in cui il controllo sociale è forte e l’integrazione più semplice. Un modello che meriterebbe di essere replicato in tutte le altre regioni, se solo ci fosse qualcuno, nell’Italia dei 20 stati nello Stato, disposto a metterci la faccia.
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