Ma perché difendi la periferia? Una domanda che mi fanno spesso, è successo anche qualche giorno fa alla Biennale di architettura di Venezia.
Stavo guardando le fotografie del Giambellino, la periferia di Milano dove lo scorso anno abbiamo lavorato con i giovani architetti del gruppo G124 al Senato. Abbiamo abbattuto un muro, che è sempre una bella cosa, e liberato il mercato comunale che ora si affaccia sul verde parco. Il quartiere dove Giorgio Gaber girava in Lambretta e che canta nella Ballata del Cerutti.
Ritratti di facce radiose, sorridenti nonostante tutto: chi coltiva pomodori nell’orto collettivo, chi con pazienza insegna italiano agli stranieri, chi è straniero e aggiusta il citofono del vicino italiano. La foto di un cinema all’aperto nel cortile delle case popolari, le sedie le portano giù da casa. Al Giambellino ci sono seimila abitanti di venti nazionalità diverse, e forse me ne sfugge qualcuna. Negli occhi di molti di loro leggo l’orgoglio di viverci. Le periferie sono ricchissime di bellezza umana e anche fisica che è nascosta. I miei pensieri correvano dietro queste immagini, avanti e indietro nel tempo. Gli anni da studente universitario a Lambrate, i concerti jazz al Capolinea, lungo i Navigli dove si fermava il tram 19.
Pensavo ai giovani di tante associazioni del Giambellino che si impegnano per migliorare il loro quartiere e ci riescono, quando un ragazzo mi si è avvicinato: «Scusi architetto, permette…». Aveva in mano il libro che abbiamo fatto sull’esperienza al Giambellino, s’intitola Diario dalle periferie: «Ma perché lei difende le periferie? E poi secondo lei è possibile una periferia migliore?».
Stavo per rispondere quando un amico mi ha distratto. Solo un attimo. Mi sono girato ma quel giovane non c’era più. Voglio dare adesso una risposta.
Perché sono figlio della periferia
Per prima cosa difendo le periferie perché è una questione d’appartenenza: sono figlio della periferia, sono nato e cresciuto nella periferia di Genova verso Ponente, vicino ai cantieri navali e alle acciaierie. Per me il centro di Genova, della Superba appunto, era lontano e intimidente. La mia è una periferia un po’ speciale, perché per metà è formata dall’acqua. Parlo del mare che invoglia alla fuga, a viaggiare per conquistarsi il futuro.
Le periferie sono fabbriche dei desideri. Cresci con l’idea di partire, diventi grande avendo il tempo d’annoiarti e di pensarci su.
Perché la periferia è la città del futuro
Difendo le periferie anche perché sono la città del futuro, che noi abbiamo creato e lasceremo in eredità ai figli. Dobbiamo rimediare allo scempio fatto e ricordarci che il 90 per cento della popolazione urbana vive nelle zone marginali.
Le periferie, che bisognerebbe chiamare città metropolitana, sono la grande scommessa del secolo: diventeranno o no urbane? Se non diventeranno città saranno guai grossi.
C’è una simmetria tra i centri storici che volevamo salvaguardare negli anni ’60 e ’70 e il rammendo delle periferie. Certo le periferie non sono così fotogeniche come i centri storici: belli, ricchi di storia, arte e fascino. Però oggi, se devo dirla tutta, i centri storici talvolta sono diventati centri commerciali a cielo aperto, infilate di boutique di lusso una dietro l’altra. I centri storici sono sazi e appagati mentre sono le periferie dove c’è ancora fame di cose e emozioni, dove si coltiva il desiderio.
La città europea insegna a non creare quartieri solo per lo shopping o solo per gli affari ma a mescolare le diverse funzioni. Le periferie sono la città che è una grande invenzione, forse la più grande fatta dall’uomo. Ovvero il luogo dove si impara e pratica la convivenza, la tolleranza, la civiltà, lo scambio e la crescita.
Perché nelle periferie c’è energia
Difendo la periferia anche perché è un concentrato d’energia, qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Quasi sempre il termine periferia è accoppiato ad aggettivi denigranti come violenta, desolata, triste. Ma le facce della gente del Giambellino sono tutt’altro che tristi.
Viene spesso definita come deserto affettivo, ma è vero il contrario: le periferie sono crogioli di energia e di passione. Che poi non si tratti solo di forze positive lo sappiamo.
Il disagio urbano è una malattia cronica della città, una sofferenza che in alcuni momenti si acuisce. Un male che è generato dal disagio sociale ma anche dal degrado e dalle bruttezze dei luoghi, dal disamoramento con cui le periferie sono state realizzate. Bisogna lavorare sulla dignità del luogo, è fondamentale. Un quartiere ben costruito è un gesto civico, una città ben costruita è un gesto di pace di tolleranza.
Perché c’è bellezza in periferia
Ecco può sembrare una contraddizione di termini ma la periferia può essere bella, perciò la difendo. Anche alcuni scorci, certi cortili, le proporzioni dei caseggiati del Giambellino sono belli. Così come la bellezza noi del G124 l’abbiamo trovata anche a Librino, a Roma sopra e sotto il Viadotto dei presidenti, a Borgata Vittoria a Torino e siamo a caccia di perle anche quest’anno a Marghera.
Si tratta di un’armonia nascosta che va cercata e scoperta. Le periferie godono di una bellezza per la quale non sono state costruite: sono state fatte senza affetto, quasi con disprezzo. Eppure c’è una bellezza che riesce a spuntare fuori, fatta certo di persone ma anche di luce, orizzonti, natura e tanto spazio.
Spazio, per esempio, per piantare nuove piante: guardare un albero riserva sorprese, non è mai uguale al giorno prima. D’autunno le foglie cambiano colore e cadono lasciando passare la luce del sole, ogni primavera si assiste al rito del rinnovamento. Una metafora della vita e della rigenerazione. Una bellezza che non è cosmesi. D’altronde il principio bellezza, quella autentica, in tutto il bacino del Mediterraneo non è mai disgiunta dalla bontà. L’idea dei greci: kalos kagathos, bello e buono.
Perché ho sempre progettato in periferia
Da quando il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita mi sono dedicato con i giovani che ho raccolto nel gruppo G124 al rammendo delle periferie. Anche da parlamentare faccio l’unica cosa che so fare: l’architetto che è un mestiere politico, nel senso che viene da polis.
Ho sempre lavorato e progettato ai margini della città. Fin dai tempi del Laboratorio di quartiere di Otranto realizzato con Unesco. Era la fine degli anni Settanta: insieme agli abitanti si faceva il progetto, insieme si sceglievano e mettevano a punto gli strumenti per intervenire, e ancora insieme si apriva il cantiere. Un processo partecipativo che non serviva, come purtroppo spesso accade, a persuadere ma ad ascoltare, capire e fare progetti migliori.
Fu allora che inventammo la figura dell’architetto condotto. Esserlo, come accade per il medico condotto, ti insegna una cosa fondamentale: l’arte di ascoltare la gente e di trovare l’ispirazione.
Anche oggi i miei progetti più importanti riguardano la riqualificazione di periferie urbane: dal campus della Columbia University a Harlem, al tribunale di Parigi verso i confini della banlieue nord, alla nuova scuola Normale superiore di Saclay a sud della capitale.
Devo rispondere ancora alla seconda domanda di quel ragazzo della Biennale: è possibile una periferia migliore?
Certo che è possibile, basta andare a Marghera dove sono appena stato per un sopralluogo con G124 per capirlo. C’è già una periferia migliore, negli ultimi vent’anni questo quartiere ha fatto passi da gigante.
Come scriveva Italo Calvino, anche le più drammatiche e le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Quel qualcosa dobbiamo però scoprirlo e alimentarlo. Così avremo città migliori.
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