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    Dossier | N. 221 articoliPiù start-up con il Sole

    Molti “professionisti” delle startup e poche exit, ecco l’anomalia italiana

    Oltre 5.800 startup, 41 incubatori certificati e almeno 100 concorrenti che si qualificano come tali. Ma pochi investimenti e meno di 10 exit sulle quasi 600 contate in Europa l’anno scorso, con un’incidenza pari a neppure un caso su 60. L’anomalia dell’innovazione italiana è descritta dal gap tra il mondo dei “professionisti delle startup” e le startup effettive, cioè le aziende con reali prospettive di crescita sul mercato. I primi aumentano con un ritmo simile alla media internazionale. Le seconde restano al palo, con pochi risultati degni di nota per fatturato e finanziamenti. Insomma, «ci sono più incubatori ed acceleratori che startup con reali prospettive di successo in Italia. E a qualcuno potrebbe venire il sospetto che nella corsa all’oro, chi guadagna è chi vende pale» spiega Francesco Inguscio, fondatore e Ceo di Nuvolab, venture accelerator e società di advisory per l’innovazione.

    Il primo fattore di debolezza indicato da Inguscio è la scarsità di exit, la vendita di quote delle startup allevate dai nostri incubatori. Gli ultimi dati di Tech.eu dicono che il mercato italiano ha sfornato appena 9 operazioni su 594 archiviate in Europa, contro le 119 messe a segno nella sola Germania.

    Una quota che fa sprofondare l’Italia in 15esima posizione su scala europea per numero di deal, con un valore pari a un terzo della Svizzera, un quinto della Svezia e un settimo di Israele. Il bottino è talmente magro che la fonte di reddito degli incubatori ha finito per ricalibrarsi dal cuore delle exit a servizi un tempo complementari, come la consulenza o l’organizzazione di programmi ad hoc per Pmi e gruppi corporate: «Le fonti di reddito solo marginalmente, soprattutto nel breve periodo, sono i proventi delle exit, bensì primariamente sponsorship da parte delle aziende del territorio, consulenze di vario tipo (spesso finalizzate alla formazione e al supporto di programmi di corporate innovation), eventi, affitto spazi e, solo eventualmente, qualche exit» fa notare Inguscio.

    Non che il contesto aiuti. Il bilancio in rosso del mercato italiano dell’innovazione è aggravato sia dalla carenza di investimenti sia dai limiti dei soggetti che dovrebbero fare da abilitatori di business. Da un lato languono i capitali, con appena 74 milioni di euro di finanziamenti venture capital in startup nel 2015, contro i 2,4 miliardi di euro raccolti a Berlino e i 2 miliardi di euro a Londra. Dall’altro si ritorna al circolo vizioso tra assenza di exit e modello di business sposato dagli incubatori: le startup sono più un’occasione di business che un business in sé. «Da questo punto di vista le infrastrutture a disposizione sono molto più interessate a fare business “sulle” startup invece che “con” le startup, visto che il business prevalente degli incubatori non è quello di sviluppare startup ma erogare consulenze ad altri soggetti, come già visto» spiega Inguscio.

    I limiti delle nostre piattaforme? Età media avanzata (nessun under 40 alla guida degli incubatori più noti), norme inadatte e formule meno competitive di quelle offerte all’estero.

    Il rischio è quello di un’ennesima fuga di capitali. Finanziari e umani: «Con dinamiche simili al più noto “brain drain” - spiega Inguscio - stiamo assistendo ad un meno visibile ma altrettanto rilevante “startup drain”. Gli imprenditori, dopo aver mosso i primi passi in Italia, devono rilocalizzarsi altrove per poter continuare il proprio percorso imprenditoriale».

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