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Rimborso a dirigente discriminata

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giustizia

Rimborso a dirigente discriminata

Il 13 maggio il tribunale di Aosta, con la sentenza 65/2016, ha statuito che, a parità di prestazioni, la lavoratrice donna ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore uomo, e che costituisce un atto oggettivo di discriminazione diretta corrispondere alla dirigente donna una retribuzione più bassa di quella prevista per prestazioni di valore inferiore, essendo del tutto irrilevante sia l’eventuale congruità della retribuzione rispetto alle mansioni svolte, sia la prova dell’intenzionalità di trattare in modo deteriore la donna lavoratrice.

“La lavoratrice lamentava di avere subito un trattamento discriminatorio consistente nell’avere percepito di un salario nettamente inferiore non solo a quello degli altri dirigenti”

 

La decisione è stata resa all’esito del procedimento speciale previsto dal «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna», Dlgs 198/2006. Il giudizio era stato intentato da una dirigente che, dopo essere stata licenziata, aveva agito per fare accertare la natura discriminatoria del licenziamento e del complessivo comportamento tenuto dal datore di lavoro, chiedendo la riammissione in servizio e l’adeguamento della sua retribuzione a quella degli altri dirigenti.

La lavoratrice lamentava di avere subito un trattamento discriminatorio consistente nell’avere percepito di un salario nettamente inferiore non solo a quello degli altri dirigenti, tutti maschi e alcuni dei quali assunti in data successiva alla sua, ma anche inferiore a quello di alcuni quadri e impiegati aziendali. Inoltre, deduceva che il licenziamento le sarebbe stato intimato a coronamento di questa condotta discriminatoria.

Il Tribunale, con decisione conforme in entrambe le fasi del procedimento, non ha ritenuto provata la natura discriminatoria del licenziamento, ma ha però evidenziato come dal raffronto tra la retribuzione percepita dalla dirigente donna e quella di alcuni quadri ed impiegati, tutti di livello e con mansioni inferiori, emergesse un’oggettiva e illegittima disparità di trattamento, malgrado la dirigente avesse maggiori responsabilità e una tutela inferiore. Il Tribunale, inoltre, ha precisato che le norme che vietano la discriminazione e garantiscono la parità di retribuzione «vietano a fortiori di corrispondere alla donna una retribuzione più bassa di quella prevista per prestazioni attinenti a una qualifica inferiore, riconosciuta a dipendenti di sesso maschile», e che, in tali circostanze, «non è necessario acquisire alcuna prova in ordine alla intenzionalità di trattare in modo deteriore la donna lavoratrice», a prescindere da ogni valutazione circa la congruità della retribuzione percepita. Il Tribunale, quindi, ha ordinato alla società di risarcire la lavoratrice per la discriminazione subita, in misura pari alle differenze tra quanto percepito e la somma minima che, secondo il giudice, avrebbe dovuto percepire: nello specifico, di poco superiore a quella percepita dal quadro con lo stipendio più alto, e che aveva costituto il parametro di raffronto a riprova del comportamento discriminatorio subito.

La decisione, seppure soggetta ad impugnazione, è molto importante, sia per il tema, sia per la scarsità di precedenti giurisprudenziali nazionali sul tema; nonostante l’attenzione della Comunità europea - un esempio è la direttiva 75/117/CEE - e le posizioni assunte dalla Corte di Giustizia Ue . A livello nazionale, invece, la produzione giurisprudenziale non ha finora inciso in modo significativo ai fini del superamento del gap retributivo tra uomo e donna, malgrado il rango costituzionale riconosciuto dal nostro ordinamento al principio di parità di trattamento salariale, il recepimento delle norme europee sul tema.

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