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Equilibrista del cemento

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Sir Ove Nyquist Arup (1895-1988)

Equilibrista del cemento

Berthold Lubetkin e Ove Arup, la «Piscina dei Pinguini» dello zoo di Londra (1934
Berthold Lubetkin e Ove Arup, la «Piscina dei Pinguini» dello zoo di Londra (1934

Senza di lui le magnifiche «vele» di cemento della Sydney Opera House non sarebbero state in piedi, e lo stesso si può dire per molti capolavori architettonici del Novecento. Sir Ove Nyquist Arup (1895-1988), uno dei più grandi ingegneri del secolo scorso, è stato infatti capace di trasformare le intuizioni in realtà, accompagnando architetti come Berthold Lubetkin, Denys Lasdun, Richard Rogers, Norman Foster, Renzo Piano e tanti altri attraverso le forche caudine della fisica, dell’economia e del cantiere. A lui il Victoria and Albert Museum dedica finalmente una retrospettiva, come evento principale di una stagione riservata – per la prima volta – al lavoro degli ingegneri, «eroi non celebrati del progetto».

Madre norvegese e padre danese, Ove Arup nacque nel 1895 a Newcastle. Studiò dapprima filosofia; solo in un secondo tempo si laureò in ingegneria a Copenhagen, nel 1922. A Londra conobbe il pensiero di Le Corbusier, che in quel periodo proclamava: «l’ingegnere ci mette in comunicazione con le leggi dell’universo». Pochi anni dopo ci fu il battesimo con l’architettura moderna, dato dalla collaborazione con Lubetkin, per cui calcolò la piccola ma acrobatica struttura della Piscina dei Pinguini a Regent’s Park (1934), con due sottili rampe attorcigliate.

Per entrare nello spazio della mostra bisogna salire su di un’impalcatura rosso fuoco che riproduce l’atmosfera di un cantiere e a cui sono appesi modelli, schermi, fotografie e curiosità, come il ritratto di Arup dipinto da Le Corbusier nel 1955. Sbarcati nella grande sala comincia la carriera matura, dagli anni della guerra, quando l’ingegnere fu arruolato nel team segreto che costruì i Mulberry temporary harbours, strutture galleggianti per gli sbarchi delle truppe alleate in Francia. Poi arrivano le grandi commesse, prima tra tutte l’Opera di Sydney nel 1956: concepita dal giovane architetto Jørn Utzon, essa richiese l’esperienza dello studio Arup per essere portata a termine in maniera coerente, dopo un tortuoso percorso finito solo nel 1973. Schizzi, rari prototipi, disegni inediti e il modello alto quasi tre metri di una vela ne sintetizzano la storia, insieme a un esemplare di «Ferranti Pegasus», l’ingombrante calcolatore elettronico – sembra un guardaroba con scrivania incorporata – utilizzato da Arup. Oggi servirsi del computer è la prassi, a quel tempo era quasi magia: fece risparmiare dieci anni di calcoli a mano. Dall’Australia si va a Parigi, con il Pompidou di Piano e Rogers – con i quali farà la Menil Collection a Houston e l’edificio dei Lloyd’s a Londra – e poi a Hong Kong con la torre HSBC di Foster, esempi di quella vena high-tech tipicamente british che collega Arup alla migliore ingegneria vittoriana. Dal soffitto pendono frammenti di strutture simili a scheletri di animali estinti, mentre chilometri di carta offrono infinite operazioni matematiche come indecifrabili spartiti dell’opera finale.

Negli anni Sessanta Ove Arup fece un passo indietro. Preferì non essere più coinvolto direttamente nei progetti; piuttosto volle allevare una nuova generazione di ingegneri che seguissero la sua design philosophy, come Peter Rice, Ted Happold, Mike Glover. Il passaggio di consegne riflette una precisa visione e una trasformazione epocale. Arup capì che gli edifici non si possono fare da soli: servono competenze diverse, serve un solido lavoro di team piuttosto che l’assolo. Questo concetto – lo definiva Total Design, rievocando l’idea di «opera d’arte totale» che Gropius sviluppò al Bauhaus – appare essenziale proprio nelle super-architetture, che per dimensioni e complessità rendono necessario l’incontro tra architettura e (varie) ingegnerie fin dal primo minuto. La fortuna dell’eredità dell’ingegnere, esposta nell’ultima sezione (Arup after Ove, 1988-2016) è conseguenza di questo approccio: oggi il suo studio ha 92 uffici in 40 paesi e 13mila dipendenti. Ci viene spontaneo un paragone con il più grande ingegnere italiano, quasi coetaneo di Arup: quando morì, nel 1979, Pier Luigi Nervi – a capo di una struttura per molti versi patriarcale – lasciò tutto al figlio Antonio che morì pochi mesi dopo, decretando la fine dello Studio Nervi e simbolicamente il tramonto di un’indimenticabile stagione dell’ingegneria italiana. Oltre al caso c’è anche la misura della reazione al cambiamento, che non tutti seppero governare, per numerose ragioni.

Al V&A si vede dunque che cosa bolle in pentola oggi negli uffici di Arup: non solo strutture (si ricordi lo Stadio Olimpico di Pechino, nel 2008) ma anche sofisticate indagini sull’acustica in un Sound Lab ricreato apposta; c’è il prototipo della WikiHouse, casa open source da costruire con stampanti 3D; e infine gli esperimenti sulle microalghe, da utilizzare per rendere sostenibili le facciate dei palazzi. Le alghe si possono infatti mettere dentro a dei pannelli di vetro – che aprono e chiudono il percorso espositivo, in una sorta di acquario gigante – per reagire al sole e creare energia pulita. La ricerca continua. «Amo le persone che cercano la verità», scriveva Arup in un coloratissimo biglietto di auguri per i suoi dipendenti. «Quelli che già la conoscono sono una noia!»

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