Cultura

Giardino di discorsi infiniti

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pia pera (12 marzo 1956 - 26 luglio 2016) / 1

Giardino di discorsi infiniti

Scriveva articoli, memoir, racconti, romanzi; traduceva dal russo e dall’inglese, misurandosi con colossi come l’Onegin. Ma Pia Pera possedeva troppo estesamente il senso del rapporto tra letteratura e vita perché possiamo identificare la sua opera solo con le pubblicazioni. Aveva lo stupendo dono del discorso infinito, di un comporre che non si esaurisce su un foglio di carta o uno schermo di computer, ma s’identifica con le cose, gli animali, le piante, gli amici, i libri degli altri, e fa scrittura del mondo intero. Pia, si può dire, componeva in ogni momento. Non l’ha fermata neppure la malattia, la sla, che priva i muscoli di qualsiasi capacità motoria, compresi quelli che permettono il respiro. Agli amici lasciava messaggi vocali che erano pieni di partecipazione e di spirito. Nessuno spazio per il lamento o per le preoccupazioni. Parlava di poesia, giudicava i fatti politici, ricordava la bellezza di Paestum, invitava a fare una nuotata tra le onde fresche del mattino; ti aiutava a identificare un fiore; ti informava che la capinera era tornata… Il suo esempio, avvenuta la morte fisica, ci dona il capolavoro definitivo.

Cominciò con un libro di racconti erotici, La bellezza dell’asino (Marsilio), nei primi anni Novanta. Per fortuna questa delizia, che ha della scostumatezza libertina, sarà presto ripubblicata. Ci voleva della bravura a presentarsi in quel modo, con quegli argomenti: a essere seria tanto scherzosamente, a esagerare con eleganza, a mostrare di sapere così tanto del sesso e delle condotte umane. Pia a distanza di molti anni considerava il libro una prova giovanile, un omaggio a certa impertinenza toscana, che era propria anche del suo titanico papà. Ma lì, tra le pieghe della carne, c’era già il meglio di Pia: la naturalezza di dire quello che va detto, il divertimento ambiguo, un eros che, prima ancora che impeto sessuale, significa pensiero della pienezza, una specie di comico che al corpo dà qualcosa dell’anima e all’anima qualcosa del corpo.

Poi Pia volle tentare il grande romanzo e, con audacia inimitabile, creò un seguito di Lolita, Diario di Lo (Marsilio, 1995), il suo libro più ambizioso e più ampio, conquistandosi fama in Italia e in America, oltre che l’invidia del figlio di Nabokov. Figurarsi che una profezia burlesca, ma pur sempre non trascurabile, della «New York Review of Books» dava a una sua ulteriore versione di Lolita il secondo posto, dopo l’ennesimo Harry Potter, nella classica dei best sellers dell’anno 2020. In Diario di Lo Pia sembra essersi impegnata a seguire il monito del san Giovanni ariostesco: «tutta al contrario l’istoria converti». Finalmente si sentiva la campana di Lolita! Oh, ne aveva lasciate di lacune il bravo Nabokov… La Lo di Pia è una maestra di fascinazione; moltiplica e complica le prospettive, in un vortice stregonesco di evocazioni e di finte (anche questo libro ci auguriamo che possa rivedere presto le stampe). Un simile personaggio ci suggerisce anche qualcosa del metodo di Pia: pensare per termini comparativi, costruendo coppie e antitesi, ma sempre mirando alla fusione e, possibilmente, anche solo provvisoriamente, all’unità e alla trasformazione della cronaca più quotidiana in avventura mentale. Anche per questo, forse, l’attiravano le filosofie orientali, delle quali era non poco perita.

E poi, dopo la fiction, trionfava l’amore dei giardini, punto sommo di questa ricerca dell’armonia e della conciliazione tra sostanze diverse. Raccontava di esser stata molto influenzata da un classico della letteratura infantile, Il giardino segreto, apparso nel 1911, della scrittrice anglo-americana Frances Hogson Burnett: la storia di una bambina antipatica e bruttina che diventa simpatica e bellina dopo aver scoperto la gioia del giardinaggio a partire dai miracolosi bulbi, facendosi amici un pettirosso, un ragazzo un po’ folletto e un cugino da anni convinto di esser prossimo alla morte. Insoddisfatta della vecchia traduzione italiana, che tagliava qua e là passi interi, Pia decise di dare una sua versione del libro, pubblicata nel 2005 da Salani. Anche l’infanzia, infatti, con la sua apertura totale alla scoperta e alla felicità, figura bene nel mosaico di ispirazioni e di vocazioni che è la mente di Pia.

Sui giardini ha scritto diversi volumi, oltre che molti articoli per la «Domenica» e per riviste specializzate, attraverso i quali è diventata una professionista del settore. Ma il giardino è stato soprattutto il punto d’arrivo di un’immaginazione; l’archetipo in cui un istinto polimorfico ha trovato il suo specchio fino alla fine. Si legge nella Virtù dell’orto (Salani), presto ripubblicato da Ponte alle Grazie: «La materia, in fondo, non è ovunque la stessa, strutturata, al di là dell’immediatamente visibile, secondo gli stessi principi? Per esempio, cosa potrebbe esserci di più diverso di mente e terra? La mente: non è il cervello. Non è un organo con collocazione e struttura precisa. Non è operabile, sezionabile, verificabile. Eppure, come negare realtà alla funzione della mente? Che sorpresa, allora, accorgersi di una sua affinità con qualcosa di tanto più tangibile e pesante, la terra». Non a caso ancora al giardino è ispirato il racconto della sua malattia, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie); il suo ultimo, magnifico libro, di cui ebbi occasione di parlare su questo stesso giornale.

Qui vorrei ricordare anche L’orto di un perdigiorno (Ponte alle grazie, 2003), pure bellissimo, un’introduzione all’arte della coltivazione e un manifesto esistenziale. La concretezza dello stile si rispecchia nel racconto delle attività più pratiche, come la pulitura del terreno o la descrizione delle gramigne. Tornano i bulbi del Giardino segreto. E qui il linguaggio, nella sua stessa tecnica letteralità, ha la virtù di elevarsi a vertici davvero poetici. Ci sono passi che ricordano le Georgiche di Virgilio, perfino sembrano citarle: stessa esattezza, stessa pregnanza sonora, stessa visionarietà. Lo dissi a Pia e per riconoscenza le tradussi il passo del poema virgiliano che canta il ritorno della primavera. Le promisi di tradurle pezzo a pezzo tutto il poema.

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