Non era più una ragazzina Pia, quando con un mazzetto di racconti si presentò in Marsilio proponendo di pubblicarli: uno lo avevo già letto su un fascicolo di «Panta», divertendomi assai, perché era ironico e spregiudicato nella descrizione dell’arbitrio del desiderio - di quello sessuale nella fattispecie - quando si affacciava nella monotonia dell’esistenza, e poi mi piaceva molto il titolo che aveva scelto: La bellezza dell’asino, quasi surreale nell’evocare come modello estetico l’emblema della stupidità, che era assurto a quel ruolo solo per fraintendimento popolare, confondendo la francesissima bellezza dell’età -âge appunto- con quella assai più ligure dell’aše - in dialetto asino - con paradossale e persino patetica inventiva.
Nel 1992, quando i racconti uscirono, Pia aveva trentasei anni ed era una slavista di valore, come attestano l’insegnamento universitario a Trento, le traduzioni dal russo - noi pubblicammo l’Evgenij Onegin nel 1996- e gli studi che stava sviluppando e pubblicando - I vecchi credenti e l’Anticristo (1992)-, ma la scrittura la attraeva come uno spazio di irrinunciabile libertà, nel quale non c’erano regole o costrizioni ma soltanto il piacere della scoperta e della trasgressione, la gioia della fantasia.
Nei racconti Pia sprizzava allegria lungo i sentieri del disincanto percorsi con autentico umorismo, che poi rivelava una sottile e imprevista vena malinconica, un sentimento di incertezza o di precarietà, caratteristico degli adolescenti che ne erano protagonisti.
Tre anni dopo, nel ’95, fu la volta del Diario di Lo, che finalmente dava la parola a lei, Lolita, finora conosciuta solo nel racconto ambiguo e un po’ torbido di Humbert Humbert: ovviamente la prospettiva della piccola seduttrice che giocava col professore come il topo con il gatto suggeriva spunti e considerazioni inevitabilmente umoristici che irritarono gli eredi di Nabokov.
Gli anni di Lo sono quelli contraddittori e confusi di un dopoguerra che non vuole finire e continua a sorprenderci con nuove diavolerie, dalla televisione agli aerei supersonici, alle bombe atomiche che scoppiavano negli atolli del Pacifico, e ci costringe a cambiare il modo stesso di ragionare e giudicare le cose del mondo: la ragazzina che seduce l’adulto diventa così l’eroina di una rivolta che non si completerà mai fino in fondo, la paladina di un’ansia di libertà che anche nel paradiso dell’infanzia ha scoperto le barriere della prigione.
Lo ha il talento di mutare in oro la pietra dell’odio per una madre tutta lacca e smalti e un patrigno che vuol cancellarla con la prepotenza del suo desiderio e spavalda apre la porta vietata a tutte le mogli di Barbablù, ma più astuta di loro ne evita le conseguenze: le polemiche che seguirono la pubblicazione del Diario, le difficoltà di pubblicarlo negli Stati Uniti ferirono l’orgoglio di Pia, che non accettava di sentirsi una profittatrice o, peggio, una plagiaria, convincendola a lasciar perdere e a rivolgere la sua attenzione verso altri orizzonti.
I libri successivi, quindi, non furono più di narrativa, anche se Pia continuò a raccontare storie, soprattutto del giardino, nel quale, cambiando vita e tornando nella sua Lucca, scelse di ritirarsi all’inizio del nuovo millennio, senza rimpianti, e che divenne la sua straordinaria metafora dell’esistenza, nella quale specchiarsi e riconoscersi, perché della vita conservava il cangiante divenire, la confusa metamorfosi.
Pubblicò, dunque, L’orto di un perdigiorno (2003), Il giardino che vorrei (2006), Contro il giardino. Dalla parte delle piante (2007) e Giardini e orto terapia (2010), una attenta e paradossale rilettura del rapporto tra l’uomo e la natura che cancellava con radicale ostinazione qualsiasi primato, per consentire una completa identificazione, un’immersione totale dell’uno nell’altra.
Fu nel giardino, il «posto dove mi sento felice», che anni dopo Pia scoprì di doversi misurare con una malattia terribile che la colpì quattro anni fa e la conseguente attesa della fine: il suo ultimo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (2016), appunto questo racconta, la sua «audacia di morire» con timida discrezione femminile, il «naufragio in un paesaggio più vasto», il capovolgersi dei ruoli, «quasi fossi diventata io il giardino», «vulnerabile», bisognosa di cure e di attenzioni.
Ora Pia se ne è andata dopo aver assaporato fino all’ultimo la pienezza e la bellezza dell’esperienza, proprio come il fiore che sboccia al mattino nella luce del nuovo giorno e al tramonto si piega senza pretendere di aver appreso quel che è stato e accadrà, ma appagato del dono della vita che ha avuto e goduto.
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