Cultura

Ritrovarsi nell’erba alta

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Pia Pera (1956-2016) / 2

Ritrovarsi nell’erba alta

Pia Pera (Olycom)
Pia Pera (Olycom)

«Per favore, prendi il secchio d’acqua e buttalo su quella piantina».

«Quale? Non vedo nessuna piantina Pia».

Il suo giardino è un miracoloso equilibrio di disordine e precisione. Lei sa dove si cela il germoglio di un lupino, il luogo in cui la camelia si fa strada tra l’erba alta. Cerco con più attenzione.

«Lì, lì». Accenna con il capo il confine estremo della proprietà a due passi dal sentiero su cui avanza con la carrozzina elettrica. Guardo attentamente: un esile ramo con foglie minuscole svetta dal terreno, deciso, tenace. Lo riconosco perché intorno al piede della giovane pianta Pia ha fatto zappare da Giulio un cerchio preciso e ora una bella terra scura isola la nuova venuta dai cardi violacei, dalle spighe e da quei selvatici fiorellini gialli che svettano anche per mezzo metro. Questa è la difficile arte dell’aver “cura”, mi dico. Lasciare liberi di crescere, dare spazio, senza danneggiare la rigogliosa selvatichezza che ci circonda. Proteggere, ma non a scapito di altri. Ricordare, dedicare tempo, curare il dettaglio senza dimenticare l’intero. Imparo, stupita di apprendere da lei ogni volta qualcosa di semplice e importante.

Quando il pomeriggio arrivo nella sua bella casa, la distinguo nella penombra del salotto con il computer davanti, legge o guarda un film; accanto a lei il letto che ha dovuto trasportare al piano terra quando si è ammalata. Beviamo acqua e zenzero e aspettiamo che il caldo dia una tregua per andare fuori. Mi interroga sui figli, sull’umore di mio marito, ombroso artista. Gli occhi verdescuro sono grandi, spalancati, il suo sguardo aperto e sfacciato fa cadere ogni misera difesa, non posso che essere sincera e confessargli timori, preoccupazioni, momenti di sfiducia. Vorrei invece che fosse lei a raccontarmi paure, incubi. Non lo fa, perché da tempo ha imparato che la malattia è solo una parte della sua vita, che è invece avida di spandersi altrove, di spaziare assai più in là della prigione impostale dal corpo.

Mi parla Pia e dimentico carrozzina, respiratore, il suo corpo inerte come un mantello abbandonato. In lei la vita esplode quando ride, gli occhi si stringono; a me piace quando ride e rido anche io. Gli argomenti di conversazione si incatenano l’uno all’altro, dal racconto di una cena a un libro letto. «Non mi è piaciuto quel film», le dico mentre lei invece ne è entusiasta. Pia non ha fretta, anche se il tempo ha per lei una scadenza. Pondera bene e vede in fondo alle cose. Io bollo come “brutto” ciò che non capisco. Lei si prende il tempo di osservare e di ricollegare alla grande rete della sua cultura ogni richiamo, ogni eco che a me sfugge. L’ascolto e ho fiducia in lei.

Quando usciamo, manovra autorevole la carrozzina elettrica, il respiratore è ben ancorato alle sue spalle. È la stagione delle piccole susine gialle, un odore dolciastro dilaga fino alla veranda. Sotto l’albero c’è un tappeto di piccoli frutti d’oro, ne raccolgo qualcuno e lo mangio.

Mi osserva compiaciuta. «Prendine ancora, portale a casa».

«Ora no, dopo».

«Andiamo a vedere l’albero della nebbia» e la seguo in fondo al giardino verso il confine che si chiude con i monti pisani. La loro ombra si allunga e porta un soffio di vento più fresco. Quando appare la nuvola rosata mi sembra di galleggiare in un sogno, un piumino soffice e impalpabile occupa una radura. Non ho parole per esprimere lo stupore e mi devo piegare all’umile espressione «Che bello!». «Bello, vero? Il suo nome è Cotinus Coggyria». Mi avvicino per toccare la peluria rosata che rende l’infruttescenza simile a una palla di bambagia piumosa. Il cespuglio è maestoso. «Quando l’ho piantato era poco più alto di un palmo» e ora guardami, sembra dire il Cotino, cosa sono diventato. Così sarà anche per la giovane pianta che, ubbidendo all’ordine di Pia, innaffio con l’acqua del secchio di zinco spuntato miracolosamente tra la vegetazione alta che costeggia il sentiero.

È per tutto questo e molto altro che quando mi avvicino a Pia nella penombra del salotto (lei è sdraiata sul letto, avvolta in un lenzuolo di delicato lino bianco, il volto disteso, i grandi occhi chiusi circondati da un aureola più scura) la parola spezzata che sgorga è «grazie, grazie».

Più tardi a casa la cercherò nelle sottolineature che ho fatto leggendo i suoi bellissimi libri; avidamente, disperatamente. Infine, nella sua postfazione al piccolo libro da lei tradotto Čechov, tre racconti, (Voland, 2011) trovo segnate in rosso queste parole

«.. il canto dell’erba e la falciatura del grano, le nubi nere e minacciose come bestie feroci, i giochi delle volpi nella steppa, le abluzioni delle lepri, la magia della notte stellata, teschi e tombe solitarie… La steppa racconta quella felicità mai raggiunta nel fuggiasco di Sogni, una pienezza di vita possibile quando ci si allontani dalla routine di una vita stanziale, e di cui Čechov aveva affinato la percezione nelle lunghe passeggiate con l’amico Isaak Levitan. Forse l’unico essere umano con cui abbia condiviso il suo sentimento più vitale e privo di ombre, un senso di felicità incondizionata nel partecipare, senza mediazioni umane, senza complicazioni psicologiche o sociali, senza senso alcuno di costrizione, al mondo fluttuante della natura». E mi ripeto, quasi allegra, «la felicità incondizionata nel partecipare al mondo fluttuante della natura…».

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