Cultura

Tutta la vita onda su onda

  • Abbonati
  • Accedi
Libri

Tutta la vita onda su onda

L’unico negozio di tavole da surf di San Francisco era Wise Surfboards, uno spazio luminoso con i soffitti alti situato tra un ristorante messicano e un asilo cristiano, ai margini di un sonnacchioso sobborgo operaio sulla riva dell’oceano che si chiamava Sunset District. Bob Wise, il proprietario del negozio, stava parlando con un gruppetto di surfisti locali quando ci entrai un pomeriggio d’inverno. «Così Doc, che dalla finestra di casa sua vede le onde, mi telefona e dice, “Dài, su, usciamo”», raccontava Wise. «Io insisto e chiedo, “Ma come sono?” E lui, “Interessanti”. Allora prendo e vado, usciamo e sono assolutamente mostruose. “Cosa ti aspettavi?” mi dice Doc. Viene fuori che quando per lui le onde sono interessanti vuol dire che sono addirittura peggio che mostruose».

Wise stava parlando di Mark Renneker, un surfista che abitava a Sunset, dove faceva il medico. E parlavano di lui anche due ragazzi giovani che sentii qualche giorno dopo in un’area panoramica molto ventosa sul lato sud del Golden Gate. Stavamo guardando le onde che rompevano contro la base della lunga scogliera nera sotto di noi – lo spot si chiama Dead Man e la marea era ancora troppo alta per uscire – quando uno dei due aveva indicato a gran voce un punto verso nord. Al di là del Gate, in una magnifica distesa d’acqua che dal Pacifico scorre nella Baia di San Francisco, alcune onde gigantesche andavano a frangersi in una zona a rischio per la navigazione che si chiama Potato Patch. Anche se erano distanti parecchie miglia da dove ci trovavamo, strapazzate dal vento e spaventosamente anarchiche, proprio in virtù della loro imponenza, avevano la tridimensionalità delle onde viste da vicino. «Ehi, prestami il binocolo», disse uno dei due ragazzi al suo amico. «Facile che ci sia Doc laggiù».

In realtà Mark quel pomeriggio stava lavorando in una clinica in centro a San Francisco, ma quei ragazzi sulla scogliera erano bene informati: Mark aveva provato a surfare sulla secca di Potato Patch – un’idea talmente assurda e terrificante che quelli che conoscevano la zona, ma non avevano parlato con i testimoni oculari, si rifiutavano di crederci. Siccome sapevo che non erano surfisti di San Francisco, dove i locali non erano che qualche decina, le loro osservazioni stavano a dimostrare che la fama di Mark aveva ormai travalicato i confini della città.

La mattina dello stesso giorno ero stato in un altro punto di osservazione – su un terrapieno sabbioso a Ocean Beach nel Sunset District – e avevo visto Mark fare sfoggio di quelle qualità che gli avevano conquistato uno status particolare tra gli altri surfisti. Le onde erano grosse, irregolari, implacabili, e non erano visibili vie d’accesso per raggiungerle dalla riva. Uscire sembrava impossibile e in ogni caso con onde così non valeva neanche la pena tentare, ma Mark era fuori, un’esile figurina con tanto di muta nera alle prese con la furia di un mondo d’acqua che si buttava tra le spesse pareti di schiuma impetuosa. Tutte le volte che sembrava riuscire ad avanzare, un nuovo set di onde più grande del precedente appariva all’orizzonte e andava a rompere ancora più in là (i set più imponenti si frangevano a circa duecento metri dalla riva), respingendolo indietro in quella che i surfisti chiamano zona di impatto.

Insieme a me a guardarlo c’era Tim Bodkin, un idrogeologo, surfista e vicino di casa dello stesso Mark. Bodkin si divertiva come un matto davanti alle traversie di Mark. «Lascia perdere, Doc!» continuava a urlare nel vento, e poi si metteva a ridere. «Non ce la farà mai! È che non vuole darsi per vinto!» In alcuni momenti lo perdevamo di vista completamente. Succedeva di rado che le onde gli dessero la possibilità di issarsi con tutte le sue forze sulla tavola e remare, perlopiù era sott’acqua, si tuffava sotto le onde, nuotando verso il largo da qualche parte lungo il fondo, trascinandosi dietro la tavola attaccata alla caviglia con il leash. Dopo mezz’ora cominciai a preoccuparmi. L’acqua era gelida, le onde potenti. Bodkin, eccitato dalla Schadenfreude, non condivideva il mio sconcerto. Alla fine, dopo quasi tre quarti d’ora, ci fu un breve momento di tregua tra le onde. Mark si arrampicò goffamente sulla tavola e cominciò a remare, le braccia come le pale di un mulino nell’uragano, e in tre minuti era fuori e si agitava energicamente sulle sommità del set successivo con cinque metri di vantaggio. Una volta al sicuro al di là delle onde, si sedette sulla tavola per riposarsi, un puntino nero che sobbalzava sull’azzurro del mare sferzato dal vento. Disgustato, Bodkin, mi lasciò solo sul terrapieno.

Capivo bene la reazione di Bodkin. La gioia di Mark davanti alla sfide del surf aveva spesso lasciato sgomento anche me.

Qualche tempo prima in quell’inverno eravamo usciti insieme in un giorno di onde grosse a Ocean Beach. Remammo verso il largo con estrema facilità – le condizioni erano perfette, i canali facili da individuare – ma, sottovalutando le dimensioni delle onde, ci posizionammo troppo vicino a riva. Prima di prendere le nostre prime onde, un set enorme ci intrappolò. La prima onda mi spezzò il leash legato alla caviglia, una solida striscia di poliuretano lunga tre metri in grado di tirare su una macchina in salita, come fosse un nastrino. Mi infilai nuotando sotto di lei e continuai a spingermi verso il mare aperto. La seconda era un condominio di tre piani. Come la prima, stava per infrangersi qualche metro davanti a me. Mi immersi e nuotai verso il fondo con tutta la forza che avevo. La parte superiore dell’onda, abbattendosi sulla superficie sopra di me, esplose con il fragore di un fulmine, mentre nell’acqua si propagavano le onde d’urto. Riuscii a tenermi al di sotto della turbolenza, ma quando tornai a galla vidi che con la terza onda del set eravamo passati a un altro ordine di grandezza. Era gigantesca e più massiccia delle altre, e risucchiava l’acqua dal fondale con una furia mai vista. Mi sembrava di avere le braccia di gomma e andai in iperventilazione. Mi immersi senza aspettare e mi spinsi in profondità. Più nuotavo verso il basso, più l’acqua diventava fredda e scura. Quando l’onda ruppe, il frastuono arrivò soffocato in modo quasi sovrannaturale, un basso profondo di violenza assoluta, e l’impeto che mi trascinò indietro e verso l’alto somigliava a un incubo in cui la forza di gravità era stata invertita. Ancora una volta riuscii a scamparla e, quando finalmente tornai in superficie, ero lontano, al largo. Non c’erano più onde, il che era una fortuna perché ero sicuro che un’altra mi avrebbe finito. Anche Mark era lì, sulla mia destra, a forse dieci metri da me. Come me, si era immerso facendo un duck dive ed era sfuggito all’inimmaginabile per il rotto della cuffia. Il suo leash aveva resistito, però, e stava tirando a sé la tavola. Mentre lo faceva, si girò verso di me con uno sguardo da folle e urlò: «Grandioso!». Poteva andare anche peggio. Avrebbe potuto urlare, «Interessanti!».

Qualche settimana dopo seppi che, secondo le valutazioni della sua raccolta dati, le onde di quel pomeriggio per Mark erano state davvero interessanti. Era rimasto in acqua per quattro ore (io avevo nuotato a lungo prima di arrivare a riva, avevo recuperato la mia tavola ed ero andato a casa a mettermi a letto), e aveva calcolato che il cosiddetto periodo – il tempo necessario perché due onde di una serie (i surfisti lo chiamano ’set’) oltrepassino lo stesso punto – era di venticinque secondi. Era l’intervallo più lungo che avesse mai registrato a Ocean Beach. Mark ha tutta l’autorità per poter fare affermazioni così astruse – non avevo mai sentito nessun surfista parlare di intervallo tra le onde, tanto meno del fatto che si misurasse – perché dal 1969 tiene una specie di diario dove annota in modo dettagliato ogni sua uscita in surf. Registra dove ha surfato, la dimensione delle onde, l’orientamento della mareggiata, una descrizione delle condizioni meteo, che tavola usa, chi sono (se ci sono) i suoi compagni, qualsiasi evento o osservazione degni di rilievo, e tutti i dati utili per procedere a un confronto anno per anno. Così la pagina del 22 dicembre 1985 riportava tra le altre cose che il mio leash si era spezzato nel ventunesimo giorno di quella stagione surfistica in cui Mark aveva cavalcato onde alte da due metri e mezzo in su, e che era il nono giorno in cui aveva surfato onde alte tre metri e più.

Il suo giornale di bordo rivelava inoltre che dal 1969 il periodo più lungo che aveva passato senza fare surf era stato di tre settimane. Era successo nel 1971 durante un breve soggiorno in un college in Arizona. Da allora per un paio di volte era stato obbligato a restare lontano dall’acqua per un tempo di quasi due settimane in seguito a ferite riportate proprio a Ocean Beach. Altrimenti, di rado aveva passato più di qualche giorno senza fare surf e spesso era uscito in acqua quotidianamente per settimane e settimane di fila. Jessica Dunne, la pittrice con cui Mark vive dai tempi dell’università, sostiene che quando non fa surf per qualche giorno diventa strano. «È irascibile, e sembra rinsecchirsi dentro ai vestiti», dice. «E quando sente che le onde cominciano a riprendere, si emoziona talmente da non riuscire a dormire. Si vedono distintamente i muscoli sul petto e sulle spalle che gli si gonfiano mentre sta seduto sul divano ad ascoltare le onde che crescono durante la notte». In un’attività che esige una dedizione totale – ci vogliono anni per riuscire a padroneggiare i rudimenti del surf, e una pratica costante per mantenere anche solo le competenze di base – Mark è il fanatico dei fanatici. Il suo fanatismo lo porta in territori letteralmente non mappati, come appunto Potato Patch. «C’è una cosa da dire di Doc», mi dice Bob Wise che fa surf a San Francisco da quasi trent’anni. «Mantiene viva l’idea che tutto è possibile».

Quella che Mark ha tenuto viva con me per anni invece è l’eventualità che potessi alzarmi prima dell’alba in una mattina d’inverno, infilarmi una muta umida e fredda, e buttarmi nella gelida violenza di Ocean Beach in un giorno di mare grosso. Imparai a temere le sue chiamate di prima mattina. Sogni popolati di grigi molossi e da una morbosa paura di annegare culminavano con lo squillo del telefono nel buio.

Penso che per la maggioranza dei surfisti – per me sicuramente – le onde mantengano una doppiezza inquietante. Quando sei concentrato a surfarle, sembrano vive, ognuna con una sua personalità precisa e complessa e repentini cambi d’umore ai quali bisogna reagire nel più intuitivo, quasi intimo dei modi – fin troppi sono i surfisti che hanno paragonato il surf a un amplesso d’amore, eppure le onde non sono vive, non sono esseri senzienti, e l’amante che ti protendi ad abbracciare può rivelarsi un assassino senza alcun preavviso. Per qualche motivo questa loro doppiezza non sembra tormentare Mark. Tra la sua vita conscia e quella inconscia c’è una strana coerenza. I suoi sogni sul surf, così come li racconta lui, sembrano tutti svolgersi in luoghi riconoscibili e in giorni altrettanto riconoscibili. Lui registra le maree e le mareggiate anche in sogno come se li registrasse sul suo diario. Se si sveglia in preda all’agitazione è perché voleva a tutti costi cavalcare un’altra delle sue onde oniriche. La sua voce, dall’altro capo del filo, anche all’alba era sempre argentina, chiassosa, già tutta nel mondo diurno: «Beh? Come sono?».

Dal suo appartamento Mark riesce a vedere l’estremità sud di Ocean Beach. Dal mio, negli anni in cui vivevo a San Francisco, potevo vedere quella nord. Inciampando e tremando mi avvicinavo alla finestra e da lì, con un binocolo congelato, senza riuscire a mettere bene a fuoco le immagini, scrutavo il mare freddo e agitato.

«Sono… bestiali».

«Beh? Allora andiamo!»

Anche altri surfisti si beccavano questi richiami delle sirene. Edwin Salem, ex protegé di Mark, racconta che restava sveglio a letto per metà della notte, angosciato dall’idea che suonasse il telefono e poi, quando squillava davvero, andava nel panico: «Doc mi telefonava solo quando c’erano delle onde spropositate e sapeva che nessuno sarebbe andato con lui. In genere ci andavo».

Tutti quelli che fanno surf pongono un limite massimo alla dimensione delle onde in cui arrischiarsi. I surfisti di una determinata area col tempo imparano a conoscere i limiti l’uno dell’altro. A San Francisco, questa conoscenza reciproca dà forma a una piccola comunità compatta, nervosa e dalla parlata strascicata, che si ritrova nei parcheggi sulla spiaggia nei giorni d’inverno in cui le onde sono potenti – i surfisti vanno avanti e indietro, i pugni in tasca, la bocca secca a forza di discutere della questione, ridendo troppo forte mentre in mare, al largo, si sollevano e collassano onde spaventose. Studiamo con attenzione le onde, i canali di accesso, cercando di decidere se il moto delle onde è a un livello che concepibilmente riusciamo ad affrontare. Si tratta di un livello che è psichico e fisico al tempo stesso, ed è imprescindibile dal gruppo: se X esce, ciò non implica obbligatoriamente che debba uscire anche io, ma se esce Y, lo seguirò perché tutto ciò che è al suo livello è, ed io lo so, anche al mio.

Quando abitavo a San Francisco, l’unico surfista di un livello prossimo a quello di Mark era Bill Bergerson, un falegname del posto che tutti chiamavano Peewee – un soprannome improbabile che gli era rimasto appiccicato dai tempi in cui era il fratello minore di qualcuno. Peewee è un surfista tranquillo, sensibile, dotato di una calma eccezionale, forse il miglior surfista puro che San Francisco abbia mai prodotto. La sua passione per il big wave surfing però non è esente da discriminazioni. Non tenta di surfare ogni giorno in cui capita che le onde siano giganti; surfa solo quando le condizioni sono ragionevolmente buone. Mark invece esce in situazioni che rasentano la follia, quando nessun altro prenderebbe minimamente in considerazione la cosa. Allora rema al largo in pieno delirio. E se ne torna ridendo. La cosa peggiore è che non ha alcun riguardo per i demoni degli altri: per quello di Edwin, dei suoi pazienti, per quello di Wise. E per il mio.

Uno dei miei demoni personali era proprio il surf. Era cominciata come una passione da ragazzino, ma da allora si era trasformata in qualcos’altro. Quando nel 1983, a trent’anni, mi ero trasferito a San Francisco facevo surf ormai da quasi vent’anni. C’erano stati lunghi momenti in cui ne ero stato lontano – mentre vivevo in Europa, o in Montana, o a New York – ma poi avevo sempre fatto in modo di ritornarci. Nel complesso, avevo investito una quantità impressionante di tempo ed energia a dare la caccia e a cavalcare le onde. All’inizio degli anni Ottanta, quando una rivista di surf (ne esistono varie) pubblicò una lista dei dieci migliori spot del mondo secondo i loro redattori, mi resi conto che in nove avevo surfato e che, cosa ancora più importante, l’onda migliore che avevo surfato nella mia vita su quella lista non c’era perché solo pochissimi sapevano della sua esistenza. Scoprire quell’onda, al largo di un’isola disabitata delle Figi, era stato l’apice di un lungo viaggio che mi aveva tenuto lontano dagli Stati Uniti per quasi quattro anni. La ricerca di nuove onde mi aveva portato in luoghi strani e meravigliosi, sprofondandomi in una o due occasioni così addentro nella vita dei villaggi tropicali di pescatori che, atterrato dalla malaria, quasi quasi ci rimanevo per sempre. Ma organizzarsi la vita lì era una cosa ben strana. Quando arrivai a San Francisco, ormai da qualche anno però ero riuscito a confinare il surf ai margini della mia vita.

Mark si mise di impegno per farmi invertire la rotta. Quando aveva sentito dire che avevo intenzione di trasferirmi a San Francisco, mi aveva scritto a New York e mi aveva mandato una sua foto su una bella onda spazzata dal vento a Ocean Beach, onda che peraltro definiva semplicemente «niente di speciale». Quando arrivai sembrava convinto che sarei stato pronto a surfare in ogni momento. Sapeva che avevo un’altra vita, ma non voleva sentire ragioni. La mia ambivalenza nei confronti di quello che io chiamavo uno sport lo faceva diventare matto. Gli sembrava un’eresia: il surf non era uno “sport”. Era “una via”. E più cose ci riversavi dentro, più ne ricevevi in cambio – lui stesso ne era la dimostrazione eclatante. Sapevo di non essere l’unico oggetto delle sue sollecitazioni a non prendere il surf più seriamente e, pur nella continuità della mia ambivalenza, l’entusiasmo di Mark produsse i suoi effetti. Riuscì a farmi surfare più di quanto avrei fatto di mio, e inoltre si conquistò la mia attenzione. Io e il surf eravamo, se così si può dire, sposati da quasi tutta la vita, ma il nostro era uno di quei matrimoni in cui c’è poco dialogo. Non parlavo quasi mai di surf, non ne scrivevo e neanche ci pensavo molto. Il surf contribuiva ben poco all’immagine che avevo di me stesso. Lo facevo e basta – con meno costanza ora di prima, ma altrettanto automaticamente. Mark voleva aiutare me e il surf a ricomporre il nostro ostinato e silenzioso matrimonio. Io non ero convinto di volerlo ricomporre. Preservare un certo margine di incoscienza vicino al centro della mia vita mi andava bene, per certi versi. Nonostante tutto però, nel corso del mio primo inverno a Ocean Beach, mi ritrovai a riempire pagine e pagine dei miei taccuini di storie legate al surf, osservazioni sull’oceano – e descrizioni del dottor Renneker.

(traduzione di Fiorenza Conte)

© Riproduzione riservata