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I cinque dubbi sui tagli dell’Opec

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DOPO L’ACCORDO DI VIENNA

I cinque dubbi sui tagli dell’Opec

Reuters
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Non è stato soltanto l’effetto sorpresa. Il petrolio, dopo gli eccezionali rialzi nel giorno del vertice Opec, ha continuato ad apprezzarsi anche ieri, spingendosi oltre 54 dollari nel caso del Brent, un livello che non aveva più raggiunto da luglio dell’anno scorso.

L’annuncio di un forte taglio di produzione si è scontrato con il diffuso scetticismo del mercato, costringendo molti fondi di investimento a ricoprire le posizioni “corte” - in pratica le scommesse ribassiste - che avevano accumulato. L’affannoso riacquisto di contratti è stato determinante per mettere le ali al petrolio, con rialzi oltre il 10% in alcune fasi della seduta di mercoledì, e volumi di scambio da lasciare a bocca aperta: sono passati di mano, ha fatto sapere l’Ice, 1,96 milioni di contratti sul Brent, un record assoluto che equivale a 1,96 miliardi di barili “di carta”, oltre venti volte i consumi giornalieri nel mondo.

Ieri ci si sarebbe potuti aspettare una correzione. Invece il Brent si è apprezzato ancora, di oltre il 4%, per chiudere a intorno ai 54 $/barile. Gli investitori, confortati dai commenti a caldo di molti i analisti, sembrano davvero convinti che l’Opec - che ha promesso di togliere dal mercato 1,2 milioni di barili al giorno, anzi 1,8 milioni col contributo di Russia e altri produttori esterni - abbia cambiato le sorti del mercato petrolifero. L’offerta si stava già riallineando alla domanda, grazie al crollo degli investimenti. Ora si può sperare in uno smaltimento più rapido delle enormi scorte accumulate negli ultimi due anni.

Ma non è detto che tutto fili secondo i piani dell’Opec. Le fonti di incertezza sono almeno cinque: la prima è la partecipazione dei paesi non Opec (alla quale peraltro sono vincolati i tagli dell’Organizzazione); la seconda riguarda l’effettiva entità dei tagli (poiché è certo che almeno qualche paese “barerà”); la terza è l’eventualità che Libia e Nigeria, esentate dai tagli, riescano a risollevare l’ouput.

Tra i fattori esogeni - che l’Opec non controlla, ma che possono essere condizionati dalla risalita del greggio - ci sono un possibile rallentamento della domanda, che farebbe sballare tutta l’equazione, e la reazione dei produttori di shale oil, tutt’altro che scontata, anche perché mancano precedenti storici in base ai quali prevedere quanto petrolio - e in quali tempi - riporteranno sul mercato.

“Tra le incertezze: la partecipazione dei paesi non Opec; l’effettiva entità dei tagli; l’eventualità che Libia e Nigeria, esentate dai tagli, riescano a risollevare l’ouput.”

 

Sul primo punto, i non Opec, per ora solo la Russia ha promesso un contributo. L’Azerbaijan, altro possibile candidato, ha già una produzione in declino. Il Kazakhstan ha appena avviato il maxigiacimento di Kashagan, Messico e Brasile stanno cercando di attirare investitori stranieri nel paese, l’Oman ha conquistato da poco il sospirato traguardo di un milione di barili al giorno. Altri grandi produttori - dagli Usa al Canada, dalla Norvegia alla Cina - sono fuori discussione, anzi c’è il rischio che ora accelerino le estrazioni.

Mosca taglierà 300mila bg: una svolta dopo aver insistito a lungo di voler solo «congelare». Tuttavia, ha chiarito ieri, lo farà dalla produzione di ottobre, ossia dal record post-sovietico di 11,2 mbg (raggiunto con un aumento di 520mila bg negli ultimi due mesi). Per di più ridurrà «in modo graduale» e solo se i paesi Opec lo faranno davvero. I tagli, ha spiegato il ministro Alexander Novak, saranno distribuiti pro quota tra le compagnie russe: un’impresa che Chris Weafer, partner di Macro Advisory, ha paragonato a «radunare un gruppo di gatti come se fossero un gregge».

Lo sforamento dei tetti produttivi da parte dei paesi Opec è un problema meno grave: accadrà - probabilmente anche da parte di un peso massimo come l’Iraq, che ha accettato obtorto collo un taglio di 210mila bg - ma l’Opec ne è consapevole e ha preso qualche precauzione. Il peso più grande lo sopporteranno produttori “disciplinati”, ossia Arabia Saudita,Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar, che insieme taglieranno 765mila bg. Inoltre le scorte dovrebbero calare anche senza l’intero taglio da 1,8 mbg annunciato: la produzione globale di petrolio ha smesso di crescere e la domanda, se non tradirà le previsioni, nel 2017 aumenterà come quest’anno di 1,2-1,3 mbg.

Resta l’incognita shale oil. Harold Hamm, pioniere del frackig con la sua Continental e oggi consigliere di Trump, sostiene con la solita spavalderia che gli Usa possano più che raddoppiare l’output. Nei fatti l’industria potrebbe faticare a ripartire, dopo due anni segnati da ingenti riduzioni dei budget, centinaia di casi di bancarotta e oltre 350mila licenziamenti. I costi estrattivi sono scesi, ma hanno già ripreso a salire da quando i frackers si sono rimessi in moto, riattivando 158 trivelle da maggio.

Certo l’Opec ha già regalato decine di miliardi di dollari in capitalizzazione alle società dello shale, che in borsa hanno registrato rialzi a doppia cifra percentuale dopo il vertice. E persino nel petrolio convenzionale (sarà un caso?) c’è già un segnale di ritorno agli investimenti: ieri Bp ha dato via libera a Mad Dog 2, progetto da 9 miliardi di $ nel Golfo del Messico.

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