Correva l’aprile del 2008, il crac Lehman era di là da venire, e tutto sembrava procedere al meglio. Un mese dopo Mps avrebbe pagato cash la banca AntonVeneta un valore folle di 3 volte il suo capitale. Il passo falso più esiziale che poteva essere compiuto. In quell’aprile di otto anni fa la banca Usa Jp Morgan rilevò il 5,3% delle azioni di Mps pagandole 950 milioni di euro,valorizzando così l’istituto quasi 18 miliardi di euro. Otto anni dopo quel valore è di fatto zero.
Basta questo per descrivere la parabola inarrestabile che ha travolto la banca più antica del mondo che in solo otto anni ha distrutto completamente il suo valore. Forse non c’è falò più grande che ha investito oltre 170mila azionisti, chiamati a più riprese a sostenere il lento collasso dell’istituto. E ogni volta con la promessa che la chiamata alle armi sarebbe stata l’ultima, quella definitiva. Mai copione fu più disatteso.
Da quel fatidico 2008 infatti Mps ha bussato denaro al mercato per una cifra che si aggira sui 15 miliardi. Il primo aumento da 5 miliardi riguardò proprio AntonVeneta. Poi arrivarono a stretto giro i Tremonti-bond, seguiti nel 2011 da una richiesta di 2 miliardi. Poi i 5 e 3 miliardi chiesti in rapida successione nel 2014-2015. I Tremonti, poi Monti bond furono rimborsati. Ma di nuovo l’ultimo grido di soccorso quello dei 5 miliardi attuali. Con il mercato, quello dei grandi investitori che non si è palesato affatto. Segno ormai della profonda disaffezione. Del resto come non comprendere.
L’azionista forte per lustri interi, la Fondazione Mps che ha governato fino a pochi anni fa con il 55% del capitale, si è via via eclissata. Oggi la sua quota è meramente simbolica allo 0,1% del capitale. Una discesa sotto un fardello enorme di perdite patrimoniali. Ma si sono via via immolati sull’altare della più grande distruzione di valore bancaria, pezzi da Novanta della industria e della finanza: da Axa azionista storico e onnipresente (in virtù degli accordi di partnership di bancassurance); agli Aleotti entrati nel 2012 con il 4% e poi usciti frettolosamente non senza aver bruciato l’investimento. Fino ai sudamericani di Btg Pactual e FinTech convinti di entrare in ruoli-chiave quando il declino borsistico era ritenuto ormai chiuso. Mai presunzione fu più grave. Stessa sorte per il neo-presidente Alessandro Falciai che ha pensato bene di investire la ricca plusvalenza dalla vendita della sua Dmt in azioni Mps. Compra titoli a fine 2014 e nel 2015 arrivando a detenerne l’1,8%. Valore di carico stimato sui 200 milioni. Oggi azzerato.
Quel che sorprende in questa vicenda amara per i grandi e piccoli soci è la pervicacia con cui si è creduto al risanamento della banca ogni volta promesso dal management e non solo. Bastava guardare all’anomalia del portafoglio crediti di Mps per accorgersi che la strada era impervia. Già nel 2012 la banca aveva sofferenze e incagli ben più alti delle altre banche e che hanno continuato a crescere arrivando a pesare il doppio della media del sistema bancario. Lì c’era il vulnus più grave di Mps e che nessun aumento di capitale poteva mai sanare del tutto.