«Business as usual», tutto nella norma. Almeno in apparenza. La Brexit è iniziata, ma i fondi venture capital continuano a iniettare liquidità in startup e aziende tech nel Regno Unito. Secondo le stime di Kpmg, il primo trimestre 2017 si è chiuso con circa 800 milioni di sterline destinate a imprese attive sull’Isola, anche se il totale di accordi è calato del 10% (196) nello stesso periodo. E proprio a Londra sono registrati due dei 10 maggiori round dei primi mesi dell’anno: i 101 milioni di dollari incassati in un round series F dalla startup di software finanziari Funding Circle e i 75 milioni di dollari dell’azienda farmaceutica Cell Medica.
La fuga per ora non è scattata neppure nella comunità di startup italiane o cofondate da italiani. Secondo i dati dell’ultimo Global startup ecosystem report di Startup genome, una società di ricerca, la sola Londra ospita dalle 4.300 alle 5.900 startup e genera un ecosistema da 44 miliardi di dollari. È difficile risalire alla quota delle italiane, ma gli esempi non mancano. Londra è diventata la prima sede estera o il quartier generale per startup del fintech come MoneyFarm (una società di consulenza online, sul mercato inglese dal 2016), Euklid (una “banca” che fa trading robotizzato, oggi valutata 10 milioni) e Soldo (un sistema di gestione dei pagamenti che ha appena aperto un round da 5 milioni di sterline). E a Londra sbarcano sempre più nostre imprese e imprenditori, in cerca di un mercato più fertile di quello attivo nella Penisola. iStarter, un acceleratore di startup made in Italy lanciato a Londra nel 2012, ha incubato nel giro di cinque anni 16 progetti sulle oltre 750 imprese valutate. Ora sta proponendo a soci e investitori una decina di startup con fatturati aggregati per quasi 20 milioni di euro e 25 milioni di euro di raccolta, una media che fa effetto rispetto agli standard italiani (si legga l’articolo sotto).
Sullo sfondo rimangono i timori per le ripercussioni della Brexit sull’ecosistema e i finanziamenti alle imprese tecnologiche. Ma, per ora, le aziende che hanno scelto Londra non sembrano interessate a cercare una nuova sede europea. La startup di “giocattoli intelligenti” Primo Toys, tra le 10 finaliste del concorso iStarter, è stata fondata proprio a Londra nel 2013. Il prodotto di punta di Primo è Cubetto, un robot di legno che insegna ai bambini dai 4 ai 7 anni l’Abc della programmazione. I suoi ideatori rivendicano il «dna italiano» della startup, anche se la sede e i suoi 17 dipendenti non si sono mai sradicati dalla City. Oggi la società fattura 4 milioni di sterline, con Ebitda in positivo e prospettive di crescita del 30-60% nel 2017.
«Siamo italiani ma abbiamo preferito l’estero per ragioni di comodità e contesto. Insomma, per quello che offre Londra a livello di investimenti e scenario» spiega Filippo Yacob, fondatore della società nel 2013. Le «comodità» di Londra includono una tassazione sul reddito più leggera, incentivi ad hoc per le startup e l’esposizione diretta a fondi venture capital e giganti del tech, a propria volta saldi Oltremanica con sede e dipendenti. Caratteristiche simili a quelle cercate in Asia, non a caso tra i prossimi obiettivi dell’azienda: «Ora puntiamo a crescere ancora: abbiamo sedi in Giappone e Corea del Sud, dove il coding è già sui banchi di scuola» spiega Yacob.
A Londra resterà anche XMetrics, startup italiana che ha realizzato un dispositivo per la valutazione di performance nel nuoto. L’azienda ha chiuso un round di 675mila sterline, pari a 1 milione di euro con il tasso di cambio dell’epoca. Oggi equivarrebbero a poco più di 800mila euro, ma la svalutazione della sterlina non basta per dire addio a Londra. Come spiega Andrea Rinaldo, ceo di XMetrics, «non ci siamo trasferiti a Londra per ragioni fiscali, ma perché il nostro business aspira a essere globale e Londra è ancora strategica».
Certo, le incognite ci sono. Secondo Rinaldo, il campanello d’allarme sta nel calo degli accordi siglati nel primo trimestre di quest’anno (-10%): «È vero – dice il ceo di XMetrics – che i volumi degli scambi restano grandi nonostante il calo dei deal, ma non è necessariamente un buon segnale perché significa che gli investitori ora finanziano più le startup mature che quelle in early stage. E a Londra succedeva il contrario».
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