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Dossier «È il palcoscenico anche per le Pmi»

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Dossier | N. 25 articoliPitti Uomo 92, lo Speciale di Moda24

«È il palcoscenico anche per le Pmi»

Al Pitti Uomo è entrato per la prima volta nel 1978, all’età di 16 anni, per accompagnare il padre che già presentava le collezioni moda alla fiera fiorentina. Da allora Claudio Marenzi è tornato al salone decine di volte, sempre come espositore con la sua Herno produttrice di capispalla d’alta gamma e poi anche come presidente di Sistema moda Italia (Smi), l’associazione confindustriale che rappresenta la filiera tessile-moda. Ma questa volta sarà diverso: Marenzi, novarese («anzi lacustre» dice lui che abita a Lesa, sul lago Maggiore), debutta come presidente della società fieristica Pitti Immagine che organizza Pitti Uomo, Bimbo, Filati, eletto il 28 febbraio scorso dal cda della holding Centro di Firenze per la moda italiana (Cfmi) guidata da Andrea Cavicchi.

Che segno avrà la sua presidenza, dopo 15 anni in cui al vertice è stato Gaetano Marzotto?

Quello della continuità. Assoluta. Non c’è nulla da cambiare, c’è solo da migliorare. Pitti Uomo è diventata un punto di riferimento mondiale nel mondo maschile. Da espositore dico: spero che nulla cambi, dovremo piuttosto stare attenti affinché sia gestita bene la futura fase di ristrutturazione della Fortezza da Basso. La fiera ha meccanismi molto delicati. Cambiamenti troppo repentini possono creare problemi.

Però negli ultimi anni Pitti Uomo è cambiata: più eventi, meno aziende di grandi dimensioni e più ricerca….

Sì ma la fiera in sé è rimasta la stessa di 15 anni fa: sono cambiati i modi di presentare le collezioni, i marchi, le sezioni, ma la sostanza è rimasta la stessa, con gli espositori che mostrano i capi e i buyer che passano tra gli stand. È cambiato quello che c’è intorno, non la fiera. È stato un cambio di paradigma.

Non più solo fiera commerciale: sarà ancora così?

L’aver stravolto il paradigma della fiera commerciale, con la Fondazione Discovery, con la Stazione Leopolda che ospita i grandi eventi mediatici, è stato premiante in tutti i sensi: sia per la brand awareness di Pitti che per il sistema moda. E ha permesso di superare una fase delicata, quella in cui i grandi marchi della moda maschile hanno deciso di abbandonare la fiera e di concentrarsi sui propri show room.

Il rischio di altri abbandoni aziendali è alle spalle?

Beh, quel momento difficile è stato superato talmente bene che alcuni dei marchi che se n’erano andati sono poi tornati al Pitti Uomo a presentare le collezioni o a fare eventi, consapevoli che ormai è l’appuntamento di riferimento per la moda maschile. Pitti Uomo oggi ha una piattaforma internazionale, mondiale. Mentre nella donna ci sono più “settimane della moda” importanti, da Parigi a Milano a New York, nell’uomo c’è Pitti e sotto il baratro.

Qualcuno ipotizza il rischio che sfilate, eventi e presentazioni oscurino la fiera…

Assolutamente no: il cambio di paradigma non ha rovinato la valenza commerciale della fiera. Anzi, ha dato la possibilità a tanti piccoli marchi di ritagliarsi una visibilità e di trovare clienti di alto livello: si è creato un palcoscenico che difficilmente si può trovare da altre parti.

Come definirebbe la ricetta-Pitti?

Fondamentale è stato avere una pratica locale ma una visione internazionale, che deve rimanere tale: Pitti è stata la prima fiera che ha aperto le porte a espositori di altre nazioni, ospita una Guest Nation con gli stilisti di altri Paesi, e questa visione aperta e internazionale è essenziale.

Una visione sostenuta dal ministero dello Sviluppo economico e dall’Ice. Quanti contributi avete ricevuto per questa edizione?

La cifra non è ancora definitiva, ma sono circa due milioni di euro.

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