C’è qualcosa dietro a questa corsa frenetica verso l’auto elettrica. È normale che l’industria corra e acceleri, certo, ma verso il mercato. I clienti invece, dopo 8 anni di offerte, gonfiate da una comunicazione incomprensibilmente esagerata, ancora non hanno degnato di uno sguardo le auto elettriche: in Italia siamo a meno di 8 ogni 10.000 auto acquistate. Nel mondo, escluso la Cina, va un po’ meglio (30 ogni 10.000), in particolare grazie alla California e alla Norvegia, che per effetto degli incentivi pesa per oltre il 6% delle vendite mondiali, pur avendo gli stessi abitanti della Sicilia. Francamente, con questi numeri nessun costruttore parlerebbe ancora di elettrico. Ma c’è la Cina, dove invece ogni 100 auto una è elettrica, con un balzo impressionante negli ultimi tre anni (nel 2013 era al livello dell’Italia).
Le ragioni di tanta freddezza da parte dei clienti sono note e lampanti: reti di ricarica inesistenti, tempi di ricarica da società agricola, costo del prodotto elevato, valore residuo non pervenuto. Le colonnine prevedono un forte coinvolgimento pubblico, non tanto per l’investimento (che potrebbe pure arrivare dai privati , come Repower, che ne sta installando oltre 150 nella penisola) quanto per la realizzazione: tra ministeri ed enti locali competenti, non si finirebbe più. Le ricariche, a parte i tempi, farebbero sorgere problemi di capacità nel sistema distributivo. Secondo Green Alliance, un think tank inglese, la Gran Bretagna (uno dei sei Paesi al Mondo con una quota di vendita di auto elettriche superiore all’1%) non sarebbe pronta, poiché la ricarica di una sola macchina richiede la stessa energia che un appartamento medio assorbe in tre giorni e, soprattutto, perché l’assorbimento simultaneo di molte vetture sarebbe insostenibile per la rete elettrica, se non adeguatamente rinforzata (tanto che stanno pensando a colonnine domestiche programmabili col timer).
Anche il vantaggio per l’ambiente pare tutto da verificare, al punto che l’equazione elettrico = ecologico è vera in rarissimi contesti. Spesso non si considera che l’elettricità non è una risorsa naturale, ma un prodotto industriale. Se viene dal nucleare, come in Francia, allora un’auto elettrica emette circa 8 grammi/km di CO2, ma se la produci in Cina col carbone il valore arriva a 120 grammi/km.
A proposito di Cina, dal Global outlook EV (electric vehicle) dell’International Energy Agency si apprende come in soli 3 anni (2013-2016) abbia impresso un’accelerazione all’elettrificazione della mobilità automobilistica. I punti di ricarica sono 141mila (erano zero), quasi la metà di tutti quelli disponibili al Mondo. Gli altri Paesi nel periodo non hanno nemmeno triplicato la dotazione, da 49.000 a 181.000. Le immatricolazioni di auto elettriche (Bev) sono passate da 15.000 (0,08%) a 257.000 (1%). Una sterzata confermata anche da uno studio di Alix Partners, che misura le vendite di auto elettriche tenendo conto dell’autonomia di guida. Tale indice, espresso in milioni di km, riporta che in Cina nel 2016 sono state vendute auto elettriche (Bbev) ed ibride plug-in (Phev) per un totale di 63 milioni/km, 30 volte il valore 2013. Nel frattempo il resto del Mondo ha solo quadruplicato le vendite, da 36 a 140 mln/km. La Cina sta deviando verso l’elettrico a beneficio della sua industria nazionale. Ancora dall’analisi di Alix Partners viene fuori che delle 260mila vetture elettriche (Bev+Phev) vendute nel secondo trimestre 2017 nel mondo, 115.000 sono di costruttori cinesi, che dunque hanno una quota del 44% a livello mondiale. Nel mercato totale (termico + elettrico) gli stessi costruttori non arrivano al 6%, tutto o quasi fatto in Cina. Fuori dai confini, una penetrazione a due digit resta un sogno, a meno che non trovino il modo per rimescolare le carte. Detto chiaramente, il sospetto è che l’industria automobilistica cinese, non potendo competere con quella occidentale e nippo-coreana, abbia puntato sul passaggio al motore elettrico per spazzare via quei vantaggi tecnologici costruiti nei decenni su propulsori, cambi, trasmissioni e altri sistemi che oggi fanno rotolare le ruote. La competizione si sposterebbe così sulle batterie. La disponibilità di litio a livello mondiale è dibattuta, ma pare non sia lui l’anello debole (Elon Musk l’ha paragonato al “sale sull’insalata”), quanto piuttosto il nichel e il cobalto. Il primo, presente soprattutto in Australia e Filippine, è al centro di grandi controversie perché la sua estrazione provoca danni ambientali significativi.
Il secondo si trova per il 60% in Congo, di cui la Cina si è già accaparrata il 90%. Ci si ritrova così al solito vecchio risiko dell’energia, di cui abbiamo memorie. Negli anni ’60 ad esempio, quando la Francia uscì dall’Algeria e puntò sul nucleare. O nel 2011, quando la Germania accelerò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima ma grazie all’inaugurazione del gasdotto Nord Stream.
In conclusione, la domanda che questa corsa all’elettrificazione pone è evidente. Da un lato è ragionevole che i costruttori occidentali sviluppino l’elettrico, per evitare le multe dell’Eea(European Environment Agency) a chi nel 2021 sforerà il limite di 95 gr/km di CO2 e per farsi trovare pronti sul mercato cinese, che pesa oltre 1/4 del totale. Dall’altro, è meno facile da capire (e da credere) che ciò sia accompagnato dalla smania di distruggere un’eccellenza industriale (l’automotive) che occupa milioni di addetti. Anche perché i consumatori, con qualche eccezione, non lo chiedono. Anzi, potendo scelgono un suv.
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