Partiamo da un paradosso giuridico. La tutela del risparmio è sancita in modo esplicito dalla Carta costituzionale. La tutela del credito non lo è. Però chi “offende” il credito con reati di bancarotta è punibile con pene che vanno sino a 10 anni di reclusione. Chi “offende” il risparmio viene imputato di truffa. Un “reatino” punito con la reclusione da sei mesi a tre anni di carcere. L’unica eccezione si verifica qualora si sia in presenza di «abusivismo finanziario». Allora la pena sale: da uno a otto anni. Va da sé che reati come le frodi al pubblico risparmio siano complessi da perseguire, in molti casi il “dolo” o, come dicono i tecnici, “l’elemento soggettivo” è difficile da dimostrare: così i processi sovente finiscono per “sfondare” le barriere della prescrizione. Questo ci dice che il risparmio italiano, nonostante le tutele costituzionali, è molto vulnerabile e molto ambìto da chi abbia molto da guadagnare e poco da perdere. Nel fascicolo allegato al Sole 24 Ore in edicola l’8 febbraio, l’undicesimo della collana «Il Nuovo Risparmio», abbiamo passato in rassegna schemi, tipologie, modalità e novità con cui il denaro dei risparmiatori viene tracciato, individuato, intercettato, dirottato e infine polverizzato, sia da rodate strutture formate da criminali economici “seriali”, sia da entità che criminali non sono affatto. In entrambi i casi il risultato non cambia: i risparmiatori finiscono per perdere i loro soldi. Irrimediabilmente? Giudicate voi: dopo la chiusura del libro (la scorsa settimana) in redazione sono giunte tre sentenze fresche di deposito. Tutte e tre su crack che risalgono al 1994. La prima riguarda la Patrimonium di Cento (Ferrara). La seconda riguarda la Girardi, Società di intermediazione mobiliare di Milano, la terza riguarda la Sfa, ex commissionaria di Borsa. E siamo certi ne arriveranno altre. Quella dei tempi della giustizia italiana è solo una delle ragioni in più per alzare le “antenne” e tentare di captare quei segnali “tipici” che rendono riconoscibili le truffe prima che si verifichino. Ma anche per smascherare quei comportamenti a “rischio” che, pur non essendo truffaldini in senso tecnico, possono egualmente concorrere al medesimo risultato finale: la vaporizzazione del denaro. Dall’esame delle vicende che ripercorriamo, poi, emerge un altro dato sociologicamente interessante: alla fine degli anni 80, quelli della stagione dei titoli “atipici” (cioè non normati dalla legge italiana), i crack che si verificavano erano simili a «reti a strascico» che catturavano migliaia e migliaia di risparmiatori per generare buchi di 100-150-200 miliardi di lire. La già citata Patrimonium coinvolse 1.700 risparmiatori per 120 miliardi di lire, analoghe le cifre del crack Italfin, Sfa o Girardi. Oggi il peso specifico dei singoli crack si è alzato moltissimo a “valore” e si è abbassato moltissimo per quanto riguarda le “quantità di teste”. Uno dei casi passati in rassegna nel volumetto (il cosiddetto «Madoff dei Parioli») ha travolto 700 investitori per 250 milioni di euro: in lire sarebbero, malcontati, 500 miliardi. In un altro (quello di Bruna Giri) a 400 investitori sono state sottratte cifre variabili tra i 40 e i 70 milioni di euro. Ma potremmo continuare. Il dato, o meglio l’evidenza empirica, rafforzerebbe l’assunto statistico di una ricchezza che in questi trent’anni si sia molto concentrata. Al tempo stesso ciò che un tempo veniva definito il “piccolo risparmio” (posto che esista ancora) parrebbe avere trovato asilo nell’industria del risparmio gestito.
Un altro dato che induce a qualche riflessione riguarda le modalità di consegna del denaro delle vittime dei crack: in ancora troppi casi avviene per contanti o con procedure improprie. Malgrado l’apparente elevato grado di consapevolezza finanziaria di molti investitori e «la diligenza del buon padre di famiglia» sconsiglino di farlo. Se ne deduce che, almeno una parte di loro, abbia la necessità di allocare queste risorse in modo fiscalmente clandestino o comunque poco trasparente: con ciò finendo per mettersi nelle mani di «bande» più o meno organizzate. Non è per caso, dunque, che la «quantificazione» dei danni causati dai crack di ultima generazione sia molto ma molto più complicata oggi quanto non lo fosse anni fa.
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