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Delitto Manduca, niente risarcimento ai figli. «Il femminicidio …

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le motivazioni della sentenza d’appello

Delitto Manduca, niente risarcimento ai figli. «Il femminicidio non poteva essere evitato»

Non sarebbe bastato sequestrare il coltello con cui il marito di Marianna Manduca l’aveva minacciata per evitare che la uccidesse il 3 ottobre 2007. L’uomo l’avrebbe ammazzata comunque: perché era determinato a farlo e perché è facile procurarsi un’arma di quel tipo. È con queste argomentazioni che i giudici della Corte d’appello di Messina, con la sentenza 198 depositata martedì 19 marzo, hanno negato che la morte della giovane mamma siciliana possa essere addebitata al mancato intervento della procura della Repubblica di Caltagirone. Per questo la Corte d’appello ha deciso di togliere ai tre figli della coppia, ancora tutti minorenni, il risarcimento del danno di 259mila euro riconosciuto due anni fa dal Tribunale e pagato dallo Stato.

La Corte, in particolare, ha ribaltato la decisione dei giudici di primo grado, che aveva riconosciuto la «colpevole inerzia» dei magistrati della Procura in relazione ai fatti denunciati da Marianna Manduca a giugno 2007: quando la donna, già separata dal marito a cui erano stati affidati i figli, visitava i bambini, l’uomo «aveva palesato la disponibilità di un’arma, estraendo un coltello a scatto e utilizzandolo con aria di sfida per pulirsi le unghie». I Pm, secondo il Tribunale, avrebbero dovuto avviare una perquisizione a carico dell’uomo e sequestrare il coltello.

La Corte d’appello concorda sul fatto che perquisizione e sequestro sarebbero stati necessari e giustificati. Ma «ciò che manca - scrivono i giudici - è la prova della ricorrenza di un nesso di causalità tra l’inerzia» e l’omicidio.

Intanto, secondo la Corte d’appello, il coltello con cui l’uomo aveva ucciso Marianna Manduca potrebbe non essere lo stesso con cui l’aveva minacciata. Ma, anche se lo fosse, «la perquisizione e il sequestro del coltello non avrebbero impedito la morte della giovane mamma».

Secondo i giudici, infatti, il marito era determinato a uccidere la moglie, con cui era in lite per l’affidamento dei figli, tanto da avere accuratamente programmato l’omicidio. Inoltre, se anche i giudici avessero sequestrato il coltello, l’uomo avrebbe potuto acquistarne facilmente un altro.

Né, secondo i giudici, sarebbe servito chiamare il marito di Marianna Manduca per interrogarlo: sapere di essere “sotto controllo”, infatti, non l’avrebbe dissuaso dal proposito di uccidere la moglie. Lo dimostrano, si legge nella sentenza, le modalità con cui è stato commesso l’omicidio: su una strada pubblica, sotto gli occhi di varie persone, tra cui il padre della vittima. «Mai l’omicida - scrivono i giudici - avrebbe potuto pensare di farla franca» e quindi «neanche la consapevolezza di essere controllato e di essere il potenziale sospettato lo avrebbe distolto dal feroce programma».

Né la Procura, secondo i giudici, avrebbe potuto applicare all’uomo una misura cautelare perché i fatti commessi, e denunciati da Marianna Manduca con 12 querele in un anno (tra settembre 2006 e settembre 2007), non lo giustificavano.

Per questo, la Corte d’appello ha condannato il cugino di Marianna Manduca, che ha adottato i tre figli, a restituire le somme già pagate dalla presidenza del Consiglio in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre agli interessi legali.

«Una sentenza inimmaginabile», secondo i legali del cugino di Marianna Manduca, gli avvocati Licia D’Amico e Alfredo Galasso. Che annunciano il ricorso in Cassazione e chiedono al ministro della Giustizia e al presidente del Consiglio di intervenire «per riparare alle conseguenze inique che questa sentenza produce in danno delle vittime di un femminicidio».

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