Il termine «lecchino» si trova già in una delle ultime edizioni del Vocabolario della crusca. Non è una voce articolata, si
direbbe scritta con pudore. Oggi i dizionari hanno ormai accolto il termine peggiorativo, che indica il luogo dove i muscoli
della lingua devono impegnarsi per rendere concreti i servizi. Persino quello online della Treccani ospita quella che sembra
una parolaccia. Leggiamo la definizione: «Leccaculo – Adulatore servile (sinonimo volgare di leccapiedi)». Che cosa dovevano
fare i compilatori? Il mondo si dev’essere talmente riempito di tali soggetti che è impossibile evitarne la segnalazione.
D’altra parte, Dante nel XVIII canto de «L’Inferno» ne descrive uno, senza concedergli sconti: è Alessio Interminelli da Lucca.
Si trova tra i dannati dopo aver adulato tutta la vita. Lo pone immerso nello sterco sino al collo e, rivolgendosi a lui,
si ricorda di averlo visto in vita “coi capelli asciutti”. Ora, poverino, li ha imbrattati perché costretto a convivere con
la materia leccata da sempre. E confida al sommo poeta: «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe/ ond’io non ebbi mai la lingua
stucca»; ovvero stanca. Brutta storia, insomma, oltre che nauseante. Antimo Cesaro, professore e uomo impegnato in politica,
ha scritto un delizioso libretto dal titolo «Breve trattato sul lecchino» (pubblicato da La nave di Teseo), che dopo una storia
di quest’arte infame offre la traduzione del settecentesco «Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani», lasciatoci
dal barone d'Holbach. Da leggere, anche per riconoscere in fretta i vocati al servizio. Non mancano, anzi abbondano.
(Modesto Michelangelo Scrofeo)
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