Poffarbacco, capita che nei 500 anni dalla morte di Leonardo - ad Amboise, il 2 maggio 1519, a 67 anni, età ben superiore alla media di allora - rimanga chiusa al pubblico nel castello di Vigevano la “Leonardiana”, bella mostra ricca di informazioni e analisi su vita, opere, manoscritti e invenzioni del Maestro. Bloccata da burocrazia e incertezze, analoghe a quelle che pertoccano oggi a ponti, trafori e cantieri: fermi. Per fortuna a Firenze e Milano, quanto a sfavillii sul da Vinci, non avremo che l’imbarazzo della scelta.
Ben diversa sorte l’anno passato era toccata a Ovidio, “urbi et orbi” dimenticato nel duemillesimo dalla morte, collocata tra il 17 o il 18 (ossia quando Gesù era nella maturità) e di cui nessuno pare si sia accorto. Tranne che a Sulmona, città natale del sommo poeta. Col quale saremo sempre in debito, perché i quindici libri del suo capolavoro, le “Metamorfosi”, hanno consentito di conoscere i grandi miti greci e latini dall’Iliade, all’Odissea, all’Eneide, da Prometeo, Apollo e Dafne, Diana e Atteone, Tiresia, Narciso ed Eco, per non parlare delle dodici fatiche di Ercole, Orfeo ed Euridice,Sisifo, Perseo e Medusa, Bacco, Apollo, la Sibilla Cumana e così via. I soggetti di gran parte della produzione pittorica, dal 500 al 700, e quelli del teatro in musica, dal Seicento della nascita in avanti, provengono tutti da Ovidio. Bello sarebbe stato se, nel mondo globale di oggi, i ventotto Stati membri della Ue si fossero impegnati con accordi multilaterali in uno sforzo comune per realizzare la massima celebrazione dell’epico romano, padre comune della nostra cultura. Che sbadati, diavolaccio.
Pensate che persino l’altro Leonard colpito da anniversario aveva studiato Ovidio, alla Boston Latin School: certo, lui, Lenny Bernstein, la bacchetta più dionisiaca della storia. Degnamente omaggiato nel centenario dalla nascita (1918) con le tre Sinfonie dirette da Pappano, a Santa Cecilia, e or ora con le deliziose “Lettere ai familiari”, sfornate da Archinto. Grande Rosellina.
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