C’è una frase, in particolare, attraverso la quale si coglie il senso dell'ultimo romanzo di Claudia Durastanti La straniera (La nave di Teseo) e forse anche il senso di tutta la sua opera. È la frase di Emily Dickinson riportata in esergo: «Dopo un grande dolore, viene un sentimento formale». Se nelle sue opere precedenti, come per esempio A Chloe, per le ragioni sbagliate, c’erano il dolore, il patimento, i sentimenti viscerali manifestati in modo anche violento, in La straniera la narrazione è condotta con misura. Quasi un paradosso visto che si tratta di una sorta di autobiografia che pesca in anfratti anche problematici. Nel narrare i fatti reali della sua vita, Claudia Durastanti mantiene un certo distacco, quel sentimento formale di cui parlava Dickinson.
«Nei memoir –spiega Claudia Durastanti- c'è sempre la presentazione di un trauma, di una ferita, di una malattia o di una perdita, e si lavora per una catarsi, c'è un elemento psicanalitico molto forte, c'è il tema della risoluzione del rapporto con le figure genitoriali. Questi temi li ho trattati nei miei libri precedenti. E per me, paradossalmente, avevano uno statuto più forte di verità e di autenticità rispetto alla mia vita nei romanzi di fantasia. Mio padre risulta più vero a me in A Chloe per le ragioni sbagliate dove attribuisco ad altri personaggi episodi autobiografici. In questo libro i personaggi dei miei genitori mi risultano quasi romanzeschi. Volevo vedere come cambia il racconto di uno stesso fatto biografico quando lo inseriamo in un romanzo o quando lo riportiamo in una sorta di autobiografia ».
In altre parole c'è più verità (e libertà) nella fiction che non nel memoir. Quando si dichiara più o meno apertamente che si sta raccontando la propria vita il sentimento formale si impone. «I sentimenti della protagonista di La straniera, che in passato aveva scritto altri libri -racconta Durastanti- sono stati mediati attraverso la scrittura dei romanzi. Questo ha permesso di scarnificare i fatti biografici e li ha resi malleabili affinché venissero raccontati con la gioia del romanzesco. La straniera è un libro in cui paradossalmente c'è una prima persona molto spiccata, ma questo “io” a un certo punto si slabbra e include persone che hanno fatto vite molto diverse dalla mia».
La straniera, come si accennava, è un'autobiografia sui generis. Claudia Durastanti racconta la vita dei suoi nonni emigrati a New York, quella dei suoi genitori entrambi sordi, le sue vicende personali con l'infanzia passata a Brooklyn, il trasferimento a sei anni in Basilicata con la mamma, e poi ancora la vita a Londra da giovane donna. Ma la narrazione non è classica, non c'è rispetto della cronologia. Si ha la sensazione che l’autrice accenda un faro su alcuni personaggi della sua famiglia (nonni, genitori, zii) e che poi questa luce diminuisca d'intensità per accendersi su un altro soggetto o un'altra situazione. Una tecnica narrativa che Durastanti spiega così: «Quando ho iniziato a lavorare sulla storia della mia famiglia avevo in mente due immagini: la mappa e le costellazioni. In più c'è il tema dell'astrologia legato a mia madre e infatti i titoli dei capitoli sono voci dell'oroscopo (famiglia, viaggi, salute, lavoro, amore). Ragionare su questo aspetto fondamentale della vita di mia madre mi ha permesso di immaginare la storia della mia famiglia e della mia vita per contenitori. Come dici tu, immaginare i personaggi di questo libro come se fossero astri a tratti più luminosi a tratti meno, con una luce che si affievolisce, secondo me era un modo interessante per fare dei salti nelle loro vite. E per me la storia di una famiglia somiglia veramente a una mappa, c'è un forte elemento topografico, è fatta per strati, per dislivelli, per crepe, per ferite. Questo romanzo è un paesaggio che cambia intorno a una ferita o a una crepa che consideravamo un abisso. Ecco, questo romanzo narra come cambia il paesaggio intorno ai nostri abissi».
Una delle figure centrali del romanzo è la madre descritta come una ragazza ribelle e non convenzionale. Una ragazza che, secondo la mitologia tramandata in famiglia, avrebbe incontrato il futuro marito salvandolo da un tentativo di suicidio. La versione di lui è, invece, diversa ma anche questo fa parte della tradizione di famiglia. Entrambi i genitori di Claudia sono sordi, ma la rappresentazione della disabilità non è stereotipata. La sordità non è protagonista, il romanzo non è il racconto di una lotta epica e di un riscatto. La sordità è solo uno degli elementi che determina le vite dei genitori.
«Una delle dediche più ovvie di questo libro è: a mia madre che ha sempre affrontato la disabilità non con coraggio, ma con incoscienza. Mi rendo conto che, essendo cresciuta con genitori sordi, c'è stato sempre uno scollamento fra quello che percepivo io del contesto familiare e la disabilità come veniva rappresentata nel cinema o in letteratura. Nei libri e nei film era come se le persone con una disabilità dovessero avere sempre vite irregolari, eccessive, spesso l'accento si pone su queste imprese picaresche e il superamento dei limiti del corpo. Avere una madre disabile è come doversi confrontare con l'idea che per il mondo quella madre sarà sempre una cosa sola, una disabile. C'è una sorta di immutabilità nella sua vita. Ma i disabili sono ovviamente sottoposti a trasformazioni come tutti gli altri. Inoltre creano una dialettica con la propria disabilità fatta di sentimenti molto complessi di accettazione, negazione, rivendicazione. Credo che qualsiasi tipo di identità presupponga il fatto che la si possa dimenticare».
Nel romanzo la madre di Claudia dice: «L'amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. C'è il sesso, l'intimità, ma non quel bisogno. La somiglianza viene prima di tutto». Sembra, dunque, che agli occhi della figlia i genitori si siano scelti soprattutto in virtù di quella somiglianza nella disabilità.
«Sì, credo che, come in tutte le storie d'amore, il motivo per cui si sono scelti conteneva anche il motivo per cui si sono lasciati. In quel momento erano attratti dalla somiglianza delle loro condizioni, però l'amore fra due figure come loro raddoppiava il senso di conflittualità che entrambi avevano con la disabilità. In un certo senso mia madre accanto a mio padre era doppiamente sorda, perché c'era sì un rapporto di simbiosi ma c'era anche l'impossibilità di dimenticare la propria condizione».
La vita di Claudia è stata piuttosto turbolenta e a tratti pittoresca: a cinque anni contrabbandava mozzarelle a Brooklyn, a sei anni in Basilicata faceva più di cento giorni di assenza a scuola e si nascondeva sui tetti per leggere. Libri rubati alla madre, le fiabe dei fratelli Grimm e anche Topolino. «Credo davvero che Topolino abbia avuto una funzione fondamentale nel mio apprendimento dell'italiano! Da piccola andavo sui tetti e la maestra di matematica veniva a recuperarmi. Credo che la letteratura mi sia arrivata sia dal non voler andare a scuola e quindi magari impossessarmi dei libri che non erano adatti alla mia età, sia dal forzato reinserimento a scuola. Credo di essere, come persona e come scrittrice, il prodotto di questo duplice movimento di violazione e di recupero».
Infine la lingua, che in questo romanzo è centrale. La lingua particolarissima parlata dai due genitori sordi che si rifiutavano di usare il linguaggio dei segni, l'inglese maccheronico dei nonni emigrati in America, la lingua della stessa Claudia con un italiano passato per Topolino e altre letture. Di fatto Durastanti è perfettamente bilingue (oggi fa anche la traduttrice), ma la lingua è parte di quei conflitti che accompagnano la sua vita.
«Quando sono emigrata a 27 anni a Londra ero convinta di avere tutte le carte in regola per essere la migrante di successo, quella che si sarebbe radicata, perché conoscevo la lingua. Invece mi sono resa conto con una sorta di malinconia, a tratti astiosa, che non mi ero adattata affatto e che paradossalmente mia nonna a New York si era adattata con molta più facilità pur non parlando l'inglese».
Uno degli altri piccoli grandi dolori della vita di Claudia che ora, forse anche grazie quel sentimento formale ereditato da Emily Dickinson, dice: «Non c'è un singolo atto di violenza nella mia vita che io riesca e ricordare senza ridere».
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