Una caverna sottomarina, il foyer di un teatro lirico, vette innevate, il sito archeologico di Petra: non c’è (quasi) traccia di quadranti né di lancette nel nuovo sito web lanciato da Rolex nel dicembre scorso. Il motivo è nel dominio del sito, Rolex.org, che si affianca al .com del suo predecessore e che sottolinea la loro differente natura: mentre sul .com gli orologi sono protagonisti esaminati nel dettaglio e si trova la lista dei negozi dove si possono comprare, sul .org sono un punto di partenza, di sfondo, per raccontare storie, valori e impegno del marchio svizzero. La strategia di Rolex è emblematica della fase più evoluta della presenza digitale dei marchi di orologeria: che sia importante essere sul web è ormai noto (l’e-shopping è in aumento, si veda l’articolo a fianco), ma non basta più. Oggi la sfida è usare la rete per raccontarsi, entrare in contatto, creare desiderio e solo in ultima analisi vendere.
Nonostante l’aumento delle e-boutique (l’ultima quella di Omega, che dopo gli Stati Uniti ha lanciato l’e-commerce anche in Gran Bretagna e ha già annunciato lo sbarco in altri Paesi) sono ancora molti i marchi che non vendono direttamente online: secondo il report The state of luxury watch e-commerce del think tank Digital Luxury Group, di 62 marchi dei segmenti luxury e premium dell’orologeria, solo 27 vendono le loro creazioni online, pari al 43%. Più alta è la percentuale (52%) dei marchi che offrono la possibilità di fare acquisti sia da Facebook sia da Instagram, a conferma che la partita delle vendite, e non più solo quella della comunicazione, si gioca sempre più sui social.
Patek Philippe è arrivato su Instagram nel 2018, Rolex un anno prima: entrambi gli account mettono in evidenza i loro orologi, anche usando la formula mosaico per esaltare i dettagli. Diversa, più votata allo storytelling, la strategia di Audemars Piguet, che ha aperto un account interamente dedicato al savoir faire, con più follower di quello più “commerciale”.
Che il fattore racconto prevalga sulla mera vendita è confermato dal costante successo di piattaforme come Hodinkee, nato nel 2008 come blog e dopo tre anni evoluto in e-shop. E dove, accanto agli orologi in edizione limitata e speciale che sono sold out entro poche ore, si propongono cappelli, occhiali, libri, piccola pelletteria, persino giochi in scatola dedicati agli orologi. Questa capacità di dar vita a un ambiente che accompagna e insieme trascende l’orologio potrebbe alimentare presto una strategia alternativa alla valorizzazione dell’heritage, che sembra ormai lasciare piuttosto indifferenti i Millennials e la Generazione Z come ha sottolineato anche lo studio Global Powers of Luxury Goods 2019 di Deloitte.
I segnali di superamento della «tradizione» sono molteplici: Richemont, per esempio, un anno fa ha lanciato Baume, marchio che si fonda su un potente storytelling di valori amati dai nuovi clienti del lusso, sostenibilità in testa, che vende solo online (soprattutto tramite Instagram) e che ha di recente lanciato anche il primo orologio automatico personalizzabile. C’è poi la veloce espansione dell’approccio “sharing”, anche a un bene strettamente personale come un orologio: da Singapore (con Acquired) agli Stati Uniti (con Watch Lending Club) alla Francia (con Luxòteque) le piattaforme di noleggio su sottoscrizione si stanno moltiplicando, grazie alla loro capacità di intercettare i nuovi desideri e dar forma a nuovi canali per soddisfarli. Ed è proprio su questa sfida che anche i big del settore stanno iniziando a plasmare il loro prossimo futuro.
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