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Gabetti, il borghese gentiluomo che garantì agli Agnelli il controllo…

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il ricordo

Gabetti, il borghese gentiluomo che garantì agli Agnelli il controllo della Fiat

Ritratto di Ivan Canu
Ritratto di Ivan Canu

A novantaquattro anni compiuti, è mancato Gianluigi Gabetti. Gabetti, che era ricoverato al San Raffaele di Milano, negli ultimi tempi aveva perso l'energia intellettuale e il vigore fisico che, fino all'anno scorso, colpiva chiunque lo incontrasse.

Con Gabetti se ne va uno dei protagonisti del Novecento: questa frase, nel suo caso, non ha nulla di retorico o di celebrativo. È veramente così. Figlio della borghesia torinese – il padre Ottavio era un prefetto – ha seguito il cursus honorum classico di quel ceto che era insieme sociale ed economico, culturale e civile: durante la seconda guerra mondiale ha partecipato alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà.

Nel dopoguerra, Gabetti entra come impiegato nella Banca Commerciale di Raffaele Mattioli diventando nel 1955 vicedirettore della sede di Torino. Conosce Adriano Olivetti, che gli offre di unirsi alla fabbrica di Ivrea. Accetterà di farlo, compiendo il primo balzo di qualità nella sua carriera: in particolare, va a lui – a partire dal 1965, quando Adriano è ormai scomparso da cinque anni – la responsabilità della OCA, la Olivetti Company of America. Gli anni di New York sono fondamentali. Gabetti, che vi incontra la futura moglie Bettina Sichel, lavora nel business e conosce il jet set culturale di allora. In virtù dei suoi interessi personali e della sua posizione in una impresa, la Olivetti, che faceva della cultura uno dei perni della sua corporate identity, Gabetti diventa membro del consiglio di amministrazione del Museum of Modern Art di New York. Al Moma incontra nel 1971 Gianni Agnelli. Per sua stessa definizione, è l'incontro più importante della sua vita. Agnelli gli propone di rientrare in Italia, come direttore generale dell'Ifi, la holding finanziaria della famiglia. Ne diventerà amministratore delegato nel 1972. Sarà sempre il consigliere strategico per eccellenza, qualche volta la mente finanziaria.

Nel 1993 lascia gli incarichi in Ifi e diventa vicepresidente di Fiat e amministratore delegato di Exor. Al di là degli incarichi formali, la sua centralità rimane anche quando nel 2003 gli Agnelli perdono il capofamiglia, l'Avvocato, e quando nel 2004 scompare pure suo fratello Umberto. Le ultime generazioni degli Agnelli sono ancora giovani e acerbe. La possibilità concreta è che gli Agnelli perdano il controllo di una Fiat in condizioni prefallimentari.

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L'amministratore delegato Giuseppe Morchio propone di diventare azionista. Gabetti, insieme a Franzo Grande Stevens, convince i membri della famiglia Agnelli, il giorno del funerale di Umberto, a non accettare. È a quel punto che, grazie alla scelta di Umberto che l'anno prima di morire aveva voluto nel consiglio di amministrazione uno sconosciuto Sergio Marchionne, Gabetti suggerisce quest'ultimo come amministratore delegato. Ed è grazie alla abilità tecnica e alla lealtà personale di Gabetti – di nuovo insieme a Franzo Grande Stevens - che la famiglia Agnelli non perde nel 2005 il controllo della Fiat a favore delle banche che avevano sottoscritto un prestito convertendo, attraverso una complessa operazione finanziaria che porterà ad una serie serie di indagini e di processi.

Con Gabetti se ne va l'esponente di una classe dirigente del Novecento per cui il potere poteva diventare cinismo ma veniva sempre esercitato con stile, la forza economica e politica era considerata pari all'influenza culturale, la borghesia non era soltanto una classe sociale ma era anche un modo di essere.

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