È (quasi) assodato da chi investe in strumenti finanziari denominati in valuta diversa dall'euro che bisogna prestare attenzione
anche al rischio cambio, cioè all'incertezza derivante dalla conversione del ricavato dell'investimento (minusvalenza o plusvalenza
che sia) nella valuta europea (ottenendo quindi una ulteriore minusvalenza o plusvalenza). Spesso, però, gli investitori se
da
un lato colgono immediatamente questo rischio su prodotti denominati per esempio in dollari o sterline, talvolta non sono
a conoscenza che altri prodotti, pur denominati in euro, sono comunque esposti a questo rischio.
Si tratta per esempio di fondi comuni, Etf (Exchange traded fund), Etp (Exchange traded product) che vengono sì valorizzati in euro, ma dipendono dal valore degli strumenti in divisa non euro (convertita al tasso di cambio del momento di valorizzazione) che costituiscono il “principio” attivo dell'investimento stesso. Per evitare questo rischio ci sono prodotti che grazie a operazioni di copertura del rischio di cambio coprono intrinsecamente questo pericolo ma, in assenza di questi prodotti, è meglio mettersi al riparo con la “solita” diversificazione e con l'analisi di correlazione tra valute e relativi sottostanti.
Un esempio di quest’ultima è il rapporto di correlazione tra l'andamento di alcune materie prime e il corrispondente andamento dei tassi di cambio: storicamente, nelle fasi di rafforzamento
del dollaro si assiste a un deprezzamento dei prezzi dell'oro (o di altri metalli preziosi associati) e viceversa. Questa correlazione inversa consente una minore volatilità sul valore
dell'investimento.
Un rafforzamento invece della domanda di materie prime produce un rafforzamento delle corrispondenti valute dei paesi produttori (si pensi al dollaro australiano e alle valute asiatiche). Se invece osserviamo l'andamento dei mercati azionari e obbligazionari è più frequente osservare una correlazione diretta con i rispettivi rapporti di cambio, cioè l'afflusso sugli investimenti (bond e azioni) produce un corrispondente rafforzamento della valuta.
GLOSSARIO
Cambio spot
È il tasso di cambio che viene rilevato “a pronti” in un qualunque momento di mercato aperto. Si definisce una quantità certa
di valuta che viene scambiata con una incerta, appunto perché variabile. I valori mutano in ogni momento anche
se vengono ufficialmente dichiarati in relazione a una specifica giornata (si pensi al classico cambio Bce) per motivi commerciali,
fiscali e/o di bilancio.
Cambio forward
È il tasso di cambio che due controparti fissano a una data futura (oltre le 48 ore, a tre mesi, un anno e così via dicendo).
Il valore dipende essenzialmente dal differenziale dei tassi di interesse delle due valute ipotizzando il finanziamento nella
prima e l'investimento nella seconda, o viceversa, nell'ipotesi di non arbitraggio.
Contratto forward
È un contratto a termine in cui due parti decidono un ammontare predeterminato di una valuta rispetto a un'altra che verrà
scambiata a una data
prefissata e a un rapporto prefissato. Il contratto potrà essere regolato con consegna fisica delle valute oppure mediante
regolazione del differenziale.
Cross currency swap
È il classico contratto derivato di scambio che produce gli stessi effetti economici del contratto “forward” (per quest'ultimo
si veda spiegazione sopra). Oltre alla forma base più utilizzata dagli operatori professionali (cioè la plain vanilla, cioè un titolo con una struttura facilmente comprensibile) esistono contratti
via via più complessi (e costosi) venduti più spesso al mercato retail.
Currency option
È un contratto derivato di opzione. Permette all'acquirente, a fronte del pagamento del costo (”premio” dell'opzione) di decidere
se acquistare o vendere un ammontare predeterminato di valuta entro — oppure — una data futura e a un prezzo già fissato contrattualmente
(strike price). Essendo una facoltà — e
non quindi un obbligo — l'acquirente eserciterà l'opzione se il prezzo di mercato sarà più favorevole rispetto al prezzo “strike”.
Nelle forme più semplici
è un ottimo strumento per la copertura dei rischi finanziari per imprese industriali ma anche per banche e assicurazioni.
DOMANDE E RISPOSTE
Quale potrebbe essere la misura di una corretta diversificazione valutaria per un investitore italiano?
Se l'orizzonte temporale dell'investimento fosse almeno di medio termine (dai 3 ai 5 anni) — e a maggior ragione di lungo
termine (10 anni e oltre) — la diversificazione valutaria deve essere modulata in funzione della tolleranza
al rischio e per ottimizzare la gestione del rischio complessivo del portafoglio. Idealmente, l'esposizione sarà maggiore
con un orizzonte più lungo e una
propensione al rischio più elevata (ma non necessariamente).
Le imprese che operano sull'estero sono soggette al rischio di cambio?
Sì, se le importazioni e le esportazioni vengono regolate nelle valute di origine oppure di destinazione senza la possibilità
di neutralizzare il rischio cambio
tramite “listino prezzi”. In questi casi è opportuno, se non doveroso, procedere con tecniche e strumenti finanziari per la
mitigazione dei rischi di cambio.
Quali sono gli strumenti tipici per la gestione del rischio di cambio?
Sono i contratti che hanno per oggetto strumenti finanziari derivati il cui valore, appunto, “deriva” dalle variazioni di
cambio e sono tra i prodotti finanziari più
liquidi e scambiati al mondo in mercati regolamentati (non Otc, Over the counter dunque). Tuttavia, l'utilizzo dei derivati
rende imprescindibile una assoluta conoscenza tecnica e giuridica dei contratti che devono essere
adeguati alle esigenze industriali di chi deve coprirsi e non a quelle finanziarie di chi li propone.
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