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«Non chiedete a un Pir aperto di fare il fondo chiuso»

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L’opinione

«Non chiedete a un Pir aperto di fare il fondo chiuso»

Alessandro Rota
Alessandro Rota

Dottor Rota, anche sui Pir è tempo di bilanci...

Il Pir è uno strumento resistente sia per l’incentivo fiscale, sia per l’ottica di lungo termine che ne contraddistingue la strategia. Fatta questa premessa, indubbiamente il 2018 è stato un anno difficile per i listini e quindi anche per le performance, ma non per la raccolta che si mantiene positiva e rappresenta oltre il 40% del saldo dei primi 9 mesi dell’anno.

Qualche riscatto però c’è stato...

I fondi aperti Pir sono prodotti liquidi, dai quali in caso di necessità si può uscire in qualunque momento. Questo da un lato è un servizio per il cliente che pur investendo nel lungo termine può riscattare, ma è allo stesso tempo un limite implicito perché il fondo non può investire sul segmento più illiquido del mercato. I Pir aperti non investono in strumenti non smobilizzabili, perché devono garantire la liquidità della quota. In un’ottica di complementarietà ci sarebbero opportunità di sviluppo anche per i fondi chiusi.

Come gli Eltif?

Sì, anche. Gli Eltif sono fondi alternativi chiusi e quindi potrebbero prestarsi allo scopo. Tuttavia in Italia non sono ancora presenti. È però difficile venderli alla clientela retail perché il prodotto chiuso si propone come qualcosa dal quale non si può uscire.

Il Pir aperto però può investire una parte in prodotti poco liquidi.

Sì, c’è il limite del 10%, ma il tema è capire cosa si intenda per prodotti poco liquidi. Per fare un esempio in questa definizione non rientrano certamente le quote di una Srl che essendo del tutto illiquide non potrebbero entrare nemmeno in minima parte nel patrimonio di un Pir aperto.

Che cosa auspica per il 2019?

Che la disciplina dei Pir conservi quelle caratteristiche che ne hanno garantito il successo.

A cosa si riferisce?

Circolano emendamenti alla legge di Bilancio che rischierebbero di ingessarlo troppo fino a renderlo inattuabile, come per esempio l’obbligatorietà di investire quote minime in fondi di venture capital. Si rischia di intervenire su uno strumento che funziona per fargli fare quello che non può fare, imponendo l’inserimento di strumenti molto illiquidi in portafoglio. La finalità positiva di portare risorse all’economia perseguita in questo modo, rischia di allontanare dalla forma del fondo aperto che è pure l’unica che i Pir hanno assunto finora.

Ma i Pir vengono spesso accusati di investire poco nelle Pmi.

I fondi aperti possono stare solo sui mercati: il 27% del patrimonio è investito sugli emittenti del mid cap, il 3% sulle small cap e il 2% sull’Aim. A differenza di due anni fa oggi l’Aim grazie ai Pir è considerato un buon punto di ingresso da tante aziende per l’ampia disponibilità di investitori in cerca di opportunità. Ed è anche su queste aziende che i Pir investono: a fine giugno detenevano il 10% del flottante dell’Aim. Un fondo aperto non investe nella parte iniziale, cioè sulle start up, più adatte invece ai fondi chiusi. Questi però oggi nella forma Pir non sono presenti sul mercato.

Potrebbe essere un augurio per il 2019..

Perché no? Una maggior varietà dei tipi di Pir offerti avvantaggerebbe i clienti. Questi, investendo in Pir chiusi, saprebbero che non possono riscattare la quota e il portafoglio potrebbe investire in percentuali anche elevate in Pmi non quotate, in venture capital e in tutto quello che è illiquido. A un fondo aperto, però, non chiedete di fare di fare il fondo chiuso.

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