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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2012 alle ore 11:26.

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foto di Troy Holdenfoto di Troy Holden

Il primo tentativo di vedere com'è Twitter dentro è decisamente naif: vado alla reception e chiedo se si può visitare, i tre nella lobby si irrigidiscono, non sono certo la prima, mi dicono di telefonare e prendere un appuntamento. Mentre di venerdì sera vedo uscire ragazzi con la felpa e ragazze con gli enormi occhiali d'osso già di moda da qualche anno a New York, mi convinco che è uno di quei posti che promette trasparenza e non la mantiene, che i tre hanno l'ordine di allontanare i curiosi. Scrivo una mail poco convinta, troppo generico l'indirizzo che trovo sul sito. Invece arriva la risposta di Karen, bella e rilassata signora dal caschetto bianco, maglione e pantalone blu, origini di Washington, dieci anni di Google alle spalle: mi invita per "un caffè informale off the record". Le foto di questo articolo sono scattate da Troy Holden, un dipendente, le trovate su Flickr, il grandangolo e gli ambienti ancora non vissuti non rispecchiano la realtà, decisamente meno patinata.

Appena lascio l'ingresso, una sola giovane segretaria dietro un bancone di legno, moquette grigio scuro e due divani verde mela attorno a due tavolini a forma di tronco d'albero tagliato, mi ritrovo nell'immensa e bellissima sala da pranzo, da chiacchere, da lavoro. Karen e la guardia giurata di mezz'età mi dicono "benvenuta a Twitter", io do un'occhiata veloce e penso che noi tre e il cuoco in fondo alla sala siamo i più grandi lì dentro, in realtà fra i mille dipendenti divisi su tre piani, c'è gente con esperienza e ragazzi appena usciti dal college, anche se si vedono in giro solo i secondi. La grande sala con i tavoli bianchi, la mensa sulla sinistra e la terrazza sulla destra che affaccia sui grattacieli a debita distanza, è il cuore del quartiere generale: pareti, pilastri, l'altissimo tetto sono in mattone grezzo, quando ci sono le riunioni o si proiettano video, sedie e tavoli vengono tolti, i pannelli bianchi che pendono dal soffitto eliminano l'eco e assicurano una buona acustica: la musica elettronica che mi accoglie, selezionata dai dipendenti a caso con i Mac, si sente fin troppo bene.

Sulla terrazza sedie e tavoli, divani, un prato verde finto e al centro la scatola con un buco e l'uccello simbolo, all'inizio penso che sia il gioco per i figli dei dipendenti, apprendo che è per i dipendenti: il buco deve essere centrato con una piccola palla, una cosa a metà tra golf e basket. Momenti di relax. Dalla supersala semivuota alle 2 del pomeriggio, dove alcuni mangiano, altri guardano il computer, si passa in altri spazi che sarebbe improprio definire corridoi, uno spazio ne apre un altro fin quando non si arriva in uffici con scrivanie, grandi finestre e "i principi" dell'azienda appesi alle pareti in pannelli rotondi e colorati, adattabili a quasi tutti i lavori: «Sii rigoroso. Farai bene», «Raggiungi chiunque in qualsiasi parte del pianeta», «Guarda le cose da prospettive diverse», «L'innovazione passa attraverso l'esperimento», «Semplifica».

Negli spazi di collegamento ci sono salette per gli incontri vis à vis, nell'open space le scrivanie sono solo da una parte, dall'altra ci sono tavoli con divanetti isolati da pareti. Chiedo che differenza c'è fra le postazioni, la risposta è nessuna, in effetti le menti al lavoro non possono stare costrette nello stesso posto e nella stessa posizione, si portano la loro Coca Cola o il cappuccino sul divanetto e parlano fra loro a gruppetti, è il popolo di Starbucks indistinto e familiare: allo stesso tempo una situazione da cameretta, scrivania e computer, divano e tavolino, il Mac sempre dietro.

In una situazione così stupisce poco che non vi sia il concetto di orario di lavoro, non ci sono tempi fissi, ognuno fa quello che deve fare, viene e va quando vuole. Poi ci sono gli ingegneri famosi per alzarsi tardi e andare via tardi, è il commento divertito, non si mette fra virgolette ma si sa: è il nuovo star system e ha preso le abitudini del vecchio.

Alla fine dell'incontro mi accorgo di aver detto molte più cose di Twitter di quanto ne ho sentite, nonostante Karen sia disponibile e gioviale. Chi lavora lì è ovviamente interessato a cosa sta producendo Twitter, si sa che il 70% degli utenti vive fuori dagli Stati Uniti, che in America si usa per tutte le forme di intrattenimento, musica, sport, sempre più per la politica, si raccolgono dati ma non si produce nessuno contenuto: non esiste un team che se ne occupa ma solo tecnici che nel caso delle elezioni o dell'uragano Sandy hanno suggerito hashtag, filtri, metodi di ricerca. Dal design che è non design, alla organizzazione di lavoro, tutto ruota attorno alla massima semplicità e il metodo per ottenerla è la semplificazione.

Prima di andare via chiedo conto delle alci di plastica gialle, bianche, azzurre appese alle pareti e in giro per i corridoi – alcuni sono sprovvisti di corna per cui presumibilmente sono caprioli – sembrano la riedizione degli antichi studi dei notabili con l'animale impagliato e imbalsamato sopra il camino che bevevano il whisky ma l'associazione di idee è troppo spericolata per proporla a Karen, chiedo se è un simbolo californiano, lei con grande educazione abbozza un sì, se vuoi trovare un significato, fai pure.

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