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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2013 alle ore 08:13.

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Le startup giornalistiche sono un motore di open innovation. Paul Bradshaw è un reporter inglese che ha avviato una sperimentazione con un quotidiano online, Birmingham Mail, per scandagliare il territorio alla ricerca di dati da rielaborare e analizzare attraverso il blog Behind The Numbers. Da poco ha pubblicato una mappa sugli standard igienici dei luoghi di ristorazione nella città britannica. E offre uno sguardo originale attraverso visualizzazioni e tabelle per aprire un dialogo con i lettori. Quella del data journalism iperlocale è una frontiera. Ma non sono poche le startup capaci di abilitare l'ecosistema del giornalismo online attraverso intuizioni che diventano data journalism, piattaforme e applicazioni software.
A giovani imprenditori capaci di mettere le mani nei linguaggi di programmazione punta il programma TimeSpace del «New York Times»: è rivolto a startup early stage che hanno già sviluppato tecnologie per i media digitali. Offre un incentivo all'innovazione aperta e all'ibridazione tra culture. Anzi, il quotidiano diretto da Jill Abramson ha nel suo laboratorio non poche iniziative di sperimentazione sul web. Come l'incubatore beta620 che ha varato la mappa di Latitude per trovare gli articoli riferiti a punti del territorio. Il «Boston Globe», invece, ha affittato alle startup una parte della sua storica sede dove conserva ancora la tipografia: tra gli inquilini c'era anche Michael Morisy che ha varato lo spazio online di MuckRock per semplificare la richiesta dei Foia (Freedom of information act) in modo da ottenere informazioni dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti locali. È stato talmente bravo da convincere la redazione del quotidiano bostoniano ad assumerlo per progetti di data journalism. Il «Washington Post», invece, incoraggia gli sviluppatori software ancora tra i banchi universitari a frequentare master per diventare reporter e collaborare con le redazioni in progetti creativi. I confini si assottigliano. Alcune startup italiane sono un trampolino di lancio per i giornalisti privi di un background tecnico, ma interessati a progettare un'applicazione software, anche per la prima volta: si tratta di laboratori fai-da-te come Appdoit, AppsBuilder o Atooma. Per iniziative più complesse esistono piattaforme online dove trovare sviluppatori software come Starbytes.
Alla frontiera dell'innovazione si affiancano le esigenze di sostenibilità economica. Secondo lo studio «Chasing sustainability on the net» coordinato dal Tampere Research Centre for Journalism, Media and Communication, la pubblicità online è la fonte principale di fatturato per le startup giornalistiche in Europa, Stati Uniti e Giappone. Ma con molte eccezioni, soprattutto nelle nazioni dove sono più frequenti le collaborazioni con le news organization. In Gran Bretagna hanno trovato spazio imprese innovative che hanno adottato modelli business to business (B2b). Audioboo, ad esempio, inizia come un progetto di test dell'emittente inglese Channel4, ma non debutta online: il fondatore, Mark Rock, decide però di registrare e pubblicare l'audio in una piattaforma sul web grazie al know how acquisito. Trova il sostegno di una community. E raggiunge accordi con «Financial Times» e Bbc. Ad allargare il perimetro dei modelli B2b è anche Tweetminster: lanciato da un italiano, Alberto Nardelli; trova e seleziona messaggi inviati nel social network Twitter, ad esempio in un'area geografica e per un periodo di tempo limitato.

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