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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2013 alle ore 09:54.

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Consapevole del problema, Helen si presenta con nome, account e numero di follower - ché non è una cosa da confessare in società ma insomma: il numero di amici e follower conta, è un criterio di valore, lo share nella rete, qualcosa dovrà pur dire. Wright racconta una dipendenza che intreccia ricerca compulsiva di informazioni e gratificazione da social network, somma di like e retweet, un quadro non troppo diverso da ciò che ha mosso l'idea imprenditoriale di Felix Levi. Helen è una giovane donna che appena sveglia non cerca doccia, colazione, caffè ma il cellulare per controllare cosa è successo in rete nella notte. Le vengono le palpitazioni se non può entrare su Facebook ogni cinque minuti, sa di non essere sola: cita recenti statistiche secondo cui sempre più persone controllano il proprio telefono ogni sei minuti, vale a dire 200 volte al giorno. Uno su quattro ammette di dedicare più ore al web che al sonno, il 73 per cento riconosce che non riuscirebbe ad affrontare un giorno intero senza telefono o computer.

«Siamo diventati una società che si fa rassicurare dai social media - scrive la ex malata Wright - abbiamo bisogno di tenerci informati, connessi, confortati. Bramiamo l'informazione all'istante, essere in una zona senza wi-fi è un'esperienza da paura, proviamo "sudori tech" se non riusciamo a contattare le persone immediatamente». All'ospedale di Marylebone Helen trova Richard Graham, psichiatra che dal 2010 cura queste patologie - un day hospital per i casi lievi, ricovero per quelli più seri. Il dottore riceve 200 richieste d'aiuto in due anni, inizia con gli adolescenti poi passa agli adulti. Nei più giovani nota ansia e depressione collegate ai giochi online come World of Warcraft, dove completi estranei giocano insieme. Graham osserva senso di appagamento nei pazienti che completano i livelli e ansia in aumento quando si sconnettono. «La stessa dinamica si ripete negli adulti con i social network» conclude. Un suo collega, Andrew Campbell, docente di psicologia all'Università di Sidney, avverte del rischio asocialità legato alla rete perché «si sta perdendo la capacità di comunicare faccia a faccia e si scambiano per vita reale i cyber smile» (gli emoticon, volgarmente dette faccette).

La paziente Wright ricorda una vacanza in Cornovaglia, la campagna inglese di «Maledetto il giorno che t'ho incontrato» nel cui verde 20 anni fa Margherita Buy e Carlo Verdone vagavano pieni di psicofarmaci: presa dalla frenesia Helen si mette in macchina alla ricerca del posto più vicino con un wi-fi per collegarsi. Ora grazie al dottor Graham sa che un like su Facebook o un retweet su Twitter «è qualcosa che ci eccita, risponde al nostro bisogno primario di essere stimati, non possiamo fare più a meno di quella gratificazione, quindi stiamo online sempre di più». Ricorda Helen: più quel dottore parlava, più mi rendevo conto che avevo bisogno di aiuto.

La cura è stata diminuire le dosi, mai accendere il pc prima di colazione, interruzioni online dieci minuti ogni ora e mezza; niente iPad a letto, causa anche di rotture con fidanzati. L'ottimo sarebbe pure evitare la tv nella stanza da letto perché i dottori ipotizzano il salto: una droga leggera (tv) induce a provare quella pesante (online), meglio evitare entrambe prima di andare a dormire. Wright prova per due giorni, le dicono che deve riuscirci per tre settimane, creare una nuova abitudine: ce la fa, dorme meglio, fa colazione senza guardare il telefono; resta la voglia di controllare Facebook nelle ore diurne, dose media giornaliera concessa dal dottore.

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