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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2014 alle ore 16:02.

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Ma la strada per soddisfare i bisogni dei pazienti deve essere costruita attraverso una cultura della ricerca, quella che gli inglesi chiamano empowerment, ovvero "ti do il potere ma anche la conoscenza". «Purtroppo in Italia abbiamo la cultura dell'esperto e del sospetto e non dei dati, e quindi siamo più facilmente manipolabili (vedi il caso Stamina, ndr)», chiosa Mosconi. I progetti di formazione, sono dunque diventati essenziali dal momento che per legge è obbligatorio che ci sia un rappresentante del volontariato nei comitati etici. «In uno scenario generale dove è sempre più importante prendere parte ai processi decisionali – spiega Renza Barbon Galluppi, presidente di Uniamo (Federazione italiana malattie rare onlus) – il percorso offerto da Determinazione Rara permetterà una presenza competente e un ruolo attivo dei pazienti e dei loro rappresentanti nei processi della ricerca scientifica che li coinvolgono direttamente: sarà un cantiere di buone pratiche tra associazioni e professionisti della sperimentazione e della ricerca».

Essere alla pari
Ciò che il paziente conosce è una parte che l'altro interlocutore non conosce. E le associazioni dei pazienti sono diventate negli anni, e lo diventeranno sempre più, protagoniste nel percorso della ricerca, che ritengono strumento fondamentale per perseguire un determinato obiettivo, ma anche perché la sostengono economicamente. E gli esempi virtuosi su questo fronte non riguarda solo le fondazioni/associazioni più note come Telethon (che ha messo a punto 27 strategie terapeutiche per la cura di 25 malattie genetiche rare) e Airc (che ha destinato nel 2012 oltre 100 milioni di euro alla ricerca sul cancro), ma anche realtà più piccole come la Fondazione Paracelso, che si occupa di emofilia, e la Parent Project, associazione di genitori di bambini affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker e l'associazione italiana cistite interstiziale sono entrati in maniera attiva nei protocolli e nella sperimentazione di nuove strategie terapeutiche. O hanno sviluppato banca dati online per colmare la mancanza di informazioni sui pazienti.
E poi c'è chi, genitore, porta avanti in autonomia la ricerca. È il caso di Fabio Gorrasi, papà di Roberta di 4 anni, affetta da Sma che ha progettato e realizzato tutto da solo un tutore, più leggero del 35% rispetto a quello standard e modificabile in base a caratteristiche e necessità del paziente. «Grazie al mio datore di lavoro ho avuto i fondi per due borse di studio, una all'Università di Pisa e l'altra a quella di Bari, atenei che alla fine potranno valutare i risultati del prototipo su mia figlia e a quel punto dare la certificazione». Nell'attesa, però, Roberta ha potuto realizzare il suo sogno: fare lezione di danza.

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