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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2014 alle ore 08:12.

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a Ci stiamo avvicinando a grandi passi a un mondo in cui non solo i lavori manuali ma anche quelli intellettuali saranno svolti dai robot e da computer sempre più sofisticati? E la società contemporanea sta per affrontare un nuova e più radicale ondata di "disoccupazione tecnologica"? La storia umana è costellata da situazioni di questo tipo, dall'invenzione della stampa alla rivoluzione industriale, fino all'invenzione della macchina a vapore e alla meccanizzazione dell'agricoltura. Memore di ciò, nel 1930 John Maynard Keynes dichiarò che il progresso tecnologico stava scoprendo sistemi per automatizzare il lavoro in modo più rapido di quanto si riuscisse a ricollocare la manodopera, mentre nel 1983 il premio Nobel per l'economia Wassily Leontief sostenne che il ruolo degli esseri umani come fattore di produzione era destinato a diminuire in modo massiccio, proprio come quello dei cavalli nell'agricoltura.
La rivoluzione in corso sembra caratterizzata da due fattori nuovi: la velocità e il fatto che a rischiare questa erosione prossima ventura sono non i lavori manuali e completamente ripetitivi, ma proprio quelli che richiedono abilità più articolate, dai taxisti ai camionisti, dai bibliotecari alle segretarie, fino ad arrivare a medici e avvocati. Un'inchiesta del 2013 dell'Associated Press svolta tra imprenditori tecnologici ed esperti di software ha rivelato che, nei quattro anni precedenti, quasi tutti i posti di lavoro scomparsi erano relativi al mondo dei colletti bianchi. Vero è anche che uno o due decenni fa figure come il consulente Seo per l'ottimizzazione dei motori di ricerca o lo YouTube Let's Player erano semplicemente inimmaginabili. Insomma, tanto per citare il titolo di un panel dell'Aiia (Associazione italiana per l'intelligenza artificiale) tenutosi lo scorso 11 dicembre all'Università di Pisa, «l'intelligenza artificiale crea o distrugge lavoro?». Il dibattito è più che mai aperto, e le posizioni sono le più varie. Per Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (economisti del Mit), autori del libro «The Second Machine Age», il rischio è che ci si diriga verso una società in cui un'élite benestante si affidi progressivamente alle macchine, spingendo quindi nella povertà una massa crescente di persone. Pensiamo al l'auto capace di guidarsi da sola che sta sviluppando Google, e che ci fa intravedere un mondo in cui tutti i lavori che prevedono la guida di un mezzo di trasporto – tassisti, camionisti e così via – scompariranno.
Quali sono dunque i lavori più a rischio? Tutti i compiti routinari e facilmente definibili che richiedono abilità medie, agenti di viaggio, bibliotecari, praticanti avvocati – già oggi gli studi legali dispongono di software per scandagliare migliaia di documenti e trovare informazioni utili in modo più accurato di un praticante alle prime armi –. In futuro un incrocio tra il supercomputer di Ibm Watson – capace di rispondere a domande postegli verbalmente – e l'assistente virtuale Siri di Apple potrebbe eliminare del tutto la figura della segretaria. Nel loro rapporto «The Future of Employment», Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne – studiosi della Oxford Martin School & Faculty of Philosophy – sostengono che il 47% del totale Usa dell'impiego è in categorie «ad alto rischio», per cui le attività associate sono automatizzabili entro 1-2 decenni. In ambito medico, per il guru della Silicon Valley Vinod Khosla gli algoritmi e le macchine sostituiranno l'80% dei medici entro una generazione; già ora Watson è in grado di dare suggerimenti basati sulle ricerche pubblicate sulle riviste mediche più recenti, mentre l'imprenditore Peter Diamandis ha varato un premio per chi creerà il primo vero "tricorder" – il dispositivo medico portatile di Star Trek – capace di diagnosticare un set di 15 patologie diverse. Secondo lui in futuro la diagnosi sarà effettuata principalmente dalle macchine; e in parte anche gli interventi chirurgici, si pensi solo al sistema chirurgico Da Vinci della Intuitive Surgical. A essere "nel giro d'aria" sono i radiologi, "minacciati" dai software automatici di pattern-recognition, che interpretano a costi molto inferiori. Per Amedeo Cesta, presidente del l'Aiia: «L'introduzione di tecnologie basate sull'intelligenza artificiale rappresenta un cambiamento con un impatto etico forte. Si tratta di tecnologie che vanno a sopperire a esigenze reali – si pensi all'assistenza agli anziani, alla carenza di mano d'opera assistenziale e alla possibilità di sopperire a ciò con robot, sensori e software intelligenti –. Quello che dobbiamo fare noi è osservare l'impatto sociale e cominciare a parlare del problema senza catastrofismi. Non si può essere luddisti, e l'unica strada che possiamo intraprendere è quella di percorrere questo cambiamento. Per quanto fare previsioni non sia mai facile, la soluzione è quella di cercare di capire il fenomeno prima che qualcosa vada storto; è fondamentale inoltre che le nuove generazioni si rendano conto delle svolte tecnologiche improvvise a cui potrebbero trovarsi di fronte una volta entrati nel mondo del lavoro».
Se già nel 1995 in «The End of Work» Jeremy Rifkin predisse la disoccupazione tecnologica di massa, se prima di lui Arthur Clarke addirittura auspicò la piena disoccupazione, oggi si può concludere che il professionista del futuro potrebbe non essere del tutto artificiale, ma quasi certamente non sarà del tutto umano.
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