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La startup avrà successo? Il segreto sta nel capitale umano

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La startup avrà successo? Il segreto sta nel capitale umano

Il talento non si insegna. Ma si può valutare e, se necessario, anche migliorare. Esistono criteri fissi che descrivono potenziale, punti di forza e debolezza dei neo imprenditori italiani? Sulla carta sì, e con un discreto armamentario di soluzioni: test online, sondaggi, ricerche, “tour istituzionali” che trasformano in impresa i progetti di giovani (e meno giovani) startupper italiani.

Nei fatti, i sistemi variano a seconda delle prospettive in gioco. E non è questione di virgole. Andrea Rangone, responsabile Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, sgombra subito il campo da un equivoco: un'analisi rigorosa è possibile, un'identikit dello “startupper perfetto”, no. «Se esistesse un sistema di profilatura impeccabile, ci sarebbero tassi di fallimento del 90-95%?», fa notare Rangone. Da qui il peso di una “analisi psicologica” che rilevi subito le caratteristiche indispensabili: «Parlo di aspetti come determinazione, leadership, resilienza. Oltre agli aspetti più contingenti: quanto ci si mette in gioco, quanto ci si espone... Tanto più il gruppo imprenditoriale è implicato, tanto più si creano le caratteristiche fondamentali per avere un futuro».

Parametri simili emergono dalle analisi di Francesco Saviozzi, professore di Strategia e imprenditorialità alla Sda Bocconi. Saviozzi indica i quattro pilastri che fondano l'attitudine imprenditoriale: orientamento al risultato, confidenza e visione di insieme sulla gestione, resilienza agli scossoni che può subire il progetto, sguardo fisso sulle occasioni di innovazione strategica. «Da una parte servono competenze e metodologie ben definite – spiega Saviozzi – dall'altra capacità di sviluppare e gestire relazioni che possono garantire una leva finanziaria per il progetto». Teoria e case history: un doppio binario di valutazione, quasi sempre a posteriori.

Non esiste una griglia che definisca l'attitudine imprenditoriale prima dell'esperimento su campo? La sfida è stata raccolta da Steps (Startuppers and Entrepreneurs Potenzial Survey), lo strumento di valutazione messo a punto dalla Fondazione Human Plus. Il modello prevede l'analisi di 18 fattori decisivi per il successo imprenditoriale, a propria volta ricompresi in quattro macrocategorie: caratteristiche, motivazioni, competenze, network sociale. Il processo si svolge per il 75% via web con un questionario e un test psicologico e per il restante 25% “dal vivo”, un assessment di gruppo e un colloquio individuale. Il focus si restringe a un unico fattore, il capitale umano: «Steps si basa sul capitale umano perché coincide con il team, e il team coincide con l'impresa», spiega Alberto Carpaneto, direttore di Human Plus.

La piattaforma, validata su un campione di 550 persone, è frutto di due anni di ricerca con la supervisione scientifica del Dipartimento di psicologia dell'Università di Torino e il Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Torino. Il lancio è stato accompagnato dallo Steps Italian Tour, una “caccia ai talenti” lunga 18 mesi e divisa in tre fasi: scouting di giovani dai 19 ai 32 anni; potenziamento delle iniziative via laboratorio; avvicinamento a un «ecosistema imprenditoriale» calibrato sulle cinque regioni coinvolte (Piemonte, Lazio, Toscana, Sicilia, Lombardia). L'iniziativa, sostenuta anche da nomi come Jp Morgan Chase, ha tradotto nella pratica il modello valutativo di Steps: dall'imprenditore all'impresa, dal capitale umano alla generazione di valore economico.

E se ci si sposta sull'altra sponda, quella di incubatori e investitori? Timothy O'Connell è l'accelerator director di H-Farm, la fucina di startup con quartier generale a Roncade (Treviso). Il metodo dell'incubatore veneto, spiega O'Connell, tiene conto di due fattori: l'analisi dell'attitudine “pura” e la sua spendibilità sul mercato italiano. «Prima di tutto valutiamo le persone: il team e le competenze specifiche. Poi c'è una serie di criteri fissi: se il mercato di riferimento è in crescita; l'idea di prodotto che stanno sviluppando; se c'è un vantaggio competitivo sulla concorrenza; il tasso di innovatività». Maggiore aderenza al made in Italy significa maggior probabilità di crescita: «Quando le startup lavorano sui settori caldi del made in Italy (food, fashion, design) ci sono più probabilità di fare breccia. Quando le startup lavorano su settori più generici, rischiano di perdersi».

Luigi Capello, amministratore delegato di Lventure Group e fondatore di Luiss Enlabs, risposta l'obiettivo sui requisiti minimi della squadra. Perché nel potenziale della valutazione c'è il potenziale della squadra: «Nell'ordine, valutiamo: la capacità del team di raggiungere certi risultati; omogeneità del team ed eterogeneità delle competenze, nel senso che la squadra deve essere coesa ma ben differenziata nella competenza; infine, l'elemento più soggettivo: capire se c'è un leader, un fuoco interiore che lo porta a raggiungere gli obiettivi. Fare startup è durissimo. E la prima valutazione è proprio la passione».

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