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Il senso di big data per le Pmi

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Il senso di big data per le Pmi

  • –Antonio Dini

C’è un equivoco che circonda i big data. Così come il telelavoro non è solo il trasloco della scrivania dall’ufficio a casa (o al bar) ma l’occasione per ripensare i flussi e le modalità collaborative, i big data non sono solo più dati rispetto a prima, ma soprattutto dati diversi da quelli a cui eravamo abituati. Diverse le premesse, diversi gli strumenti, diversi i risultati.

Un grande scettico dei big data era Thomas Davenport, docente al Babson College, direttore della ricerca all’International Institute for Analytics e senior advisor di Deloitte. La sua idea era semplice: i big data sono una moda, una di quelle categorie-ombrello che il marketing delle multinazionali hi-tech ciclicamente si inventa per vendere nuovi prodotti: «Ritenevo che l’analisi dei big data non fosse differente dall’analisi di quelli che potremo chiamare “small data”». Eppure...

Dopo alcuni anni di ricerca e riflessione, Davenport ha capito di aver sbagliato e ha cambiato idea: «Mi sono reso conto che lo sforzo necessario per estrarre e strutturare i big data dalle loro fonti originarie è notevole. Servono abilità e capacità particolari per riuscirci». Davenport è stato forse il primo ad aver mostrato alle aziende come combinare i big data con gli small data per creare valore nei processi di business. Un approccio che lui ha chiamato «Analytics 3.0».

Aprire la porta dei big data con Davenport, che in Italia ha appena pubblicato con Franco Angeli «Big Data @l lavoro», vuol dire attraversare lo specchio di Lewis Carroll: un mondo in cui le regole degli scacchi, cioè dell’analisi dei dati, cambiano radicalmente e giungono a un nuovo livello. Cambiano soprattutto le opportunità e gli errori. «Ad esempio, cominciare a esplorare i big data senza avere un obiettivo di business in mente, oppure ritenere che i big data siano più importanti degli small. Questi sono sbagli perché quel che conta invece è la combinazione dei due. Per questo un terzo errore è creare strutture separate per big e small data: le analisi degli uni dovrebbero essere comuni con quelle degli altri».

I big data sono quelle informazioni che si raccolgono in forma non strutturata, in grandi volumi e con flussi continui e veloci. Sono diventati una ricetta che dovrebbe interessare le grandi aziende ma anche – e forse soprattutto – le piccole: «Sono un ottimo modo per imparare dal mondo esterno, dai potenziali clienti fornitori e gli altri fattori in gioco per una piccola attività. I big data che vengono da fuori, non dai sistemi interni, sono potenti: le fonti sono i social media e gli open public data. L’hardware per analizzarli costa poco, il software è quasi sempre gratuito. La vera risorsa scarsa sono i talenti in grado di analizzarli».

Questo porta a una domanda per le piccole (e le grandi) imprese: quanti data scientist (una nuova professione, simmetrica ai computer scientist, i nostri informatici) sotto i 25 anni avete assunto negli ultimi dodici mesi?

I big data infatti contribuiscono all’innovazione. Perché le regole degli scacchi al di là dello specchio sono diverse. Le cambia ad esempio l’internet delle cose. Che porta nuovi flussi di bit da analizzare: con tutti gli oggetti connessi diventa possibile il monitoraggio e controllo degli apparecchi industriali e dei consumatori.

La linea della marea dell’innovazione bagna contemporaneamente le grandi aziende e le piccole. I numeri acquistano un significato diverso: lo sgarrupato fabbricante asiatico di cover degli smartphone, che produce a basso costo milioni di pezzi, se riesce ad animarli con un sensore Nfc diventa all’improvviso potente quanto Apple e Samsung, perché apre il suo terzo occhio della consapevolezza digitale. “Vede” il piano digitale della realtà. Quello che permette di creare nuovi prodotti e servizi per i clienti intuendo aree sconosciute a tutti. Come il giorno in cui per la prima volta vedremo la materia oscura e invisibile di cui è fatta la maggior parte dell’universo. Così quando vediamo tramite i big data la parte invisibile del mondo fatto di persone e macchine che parlano e agiscono attorno a noi si trasforma per sempre la nostra consapevolezza. Il professor Davenport non lo dice, ma forse la dovremmo chiamare illuminazione digitale.

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